Tanti amici lettori penseranno, come a volte occorre nell'opera di
Borges, che queste mie riflessioni sui Natali della mia infanzia
saranno piuttosto vaghe, altri diranno, ambigue o indeterminate. C'è
perfino chi osserverà che ho scritto molto o, al contrario, che
avrei dovuto raccontare di più. Altri ancora giudicheranno che non
c'è da fidarsi perché manca un minimo di sincerità: l'evocazione del
mio passato potrebbe perfino essere erronea. Eppure non si può
suggerire un'adolescenza dimezzata soltanto con la memoria ma
piuttosto, come faceva Proust con la sua Madeleine, ricorrendo a un
sapore, un sentimento, una melodia, un'immagine che balza
spontaneamente. Ricordare diventa tutto sommato un'equazione di
carne e di sangue. Ricordo con tutto il corpo. Con le mani che
impararono a scrivere, coi piedi che diedero i primi passi, con gli
occhi che rimasero aperti a tante scene quotidiane. Quando
incomincio a ritrovare le mie parole e decifrare i miei silenzi
scopro ad un tratto che non sto raccontando la mia vita ma è proprio
la mia vita che mi racconta. Sembra molto astratto? Vediamo. Eccoci
giunti di nuovo alle feste natalizie. Quest'anno ancora i negozi
saranno affollati di padri eccitati che giocheranno la commedia
della generosità annuale. Malgrado le guerre, la violenza urbana, il
terrorismo, l'antrace, la politica, l'inquinamento, le tasse, gli
incidenti stradali, l'inflazione, gli scioperi, il colesterolo,
l'obesità, l'esplosione demografica, l'ipertensione arteriale, la
fame nel mondo, la febbre edilizia, la corruzione, gli ingorghi, la
svalutazione monetaria e il ritmo frenetico della vita postmoderna
fra poco varcheremo il 2002.
Il mio ultimo Natale trascorso a Tuglie risale al 1958. Quando si
radunava la banda della Croce con Livio Calò, Franco Leopizzi,
Silvio Mottura, Aldo e Giuseppe Solida e tanti altri amici
dimenticati dopo regali perla mia infanzia. Ricordo ancora che fu
un'epoca fortemente, esclusivamente bellica: sparavo tra gli arbusti
in cerbottane fatte all'ultimo momento, mi acquattavo dietro le rade
macchine posteggiate facendo fuoco col mio fucile a ripetizione,
guidavo assalti all'arma bianca sulle Mute Terre, mi perdevo in
battaglie sanguinosissime. Mobilitavo anche le vestigia
dell'orsacchiotto e le bambole della sorella. Sparavo e facevo pum
con la bocca e scoprivo che il gioco lo creavo io per quel che vi
inserivo, non per quel che vi trovavo di confezionato. Niente
giocattoli dunque. Immaginavo guerre molto complesse in cui la
verità non stava mai da una parte. Inventavo situazioni, un insieme
di rapporti, alleanze e posizioni strategiche. Combattevo contro
altri ragazzi, la prima volta ebbi paura e scappai, la seconda
rompemmo il vetro della porta di casa, la terza mi presi un sasso
sul labbro e ancora adesso ho come un nodulo dentro che si sente con
la lingua. Poi venne la Befana con una penna stilografica e due
quaderni. Da questi giochi improvvisati di guerre virtuali è venuto
fuori un uomo che è riuscito a vivere fino adesso dedicandosi a
severi studi letterari e filologici e all'insegnamento universitario
di lingue romanze. Sono ormai trascorsi molti anni da quando un
giorno di agosto del '59 persi il mio paese. Non vorrei convertire
questo mio scritto in una valle di lacrime però riecheggia sempre
nel ricordo una patetica nota di nostalgia. Abitavo precisamente
sulla Croce prima dell'esilio; quando la via Enrico Toti era ancora
una corte; quando andavo dalle suore "Figlie di S. Anna"; quando
camminavo lungo la ferrovia bagnata di pioggia a raccogliere le "moniceddhe"
e le "cozze piccinne"; quando, a luglio, abitavamo "allu furneddu";
quando girovagavo di notte cupa sulle "macchie" e fischiavo per
reprimere le mie paure; quando ungevo i fichi sull'albero con l'olio
per farli maturare più presto; quando indossavo il grembiule nero
con colletto bianco e nastro azzurro; quando andavo a fare il
barbiere nel salone di "Mesciu 'Mpeu"; quando, chierichetto, servivo
a messa pronunciando parole misteriose Ad Deum qui laetificat
juventutem meam ; quando sulla bicicletta di mio padre cantavo a
squarciagola Zumpa Giuvanna s'ha ruttu lu scarfalettu...;
quando, a
scuola, ricevevo le steccate del maestro Luigi Saccomanno per non
rimanere zitto (pizzaca!); quando, incredulo, non capivo come mai
qualcuno potesse morire e accompagnavo stoicamente l'incognito
defunto al cimitero come se fosse un parente stretto; quando non ero
conscio dei miei molti difetti e ancora pochi meriti.Ogni tanto mi sorprendo a dare uno sguardo furtivo ad un testo
scolastico, conservato ancora tra i volumi della mia biblioteca:
Mamma - II libro per la 1a classe elementare (Milano, Aristea
Editrice, senza anno di pubblicazione), scritto da Bruno Vaccari, il
pedagogo, e rilegato da Esterina Romano Imperiale, mia madre.
Ottobre del 56. Il volume non si trovava più in vendita, la mamma
l'aveva acquistato usato, in pessime condizioni e l'aveva tutto
ricucito. Questo libro, sebbene molto imperfetto, assume un valore
fondamentale perché stabilisce la frontiera tra il dolce paradiso
della nostra ignoranza e il mondo rigido dell'istruzione. Cortese
lettore, come avrai capito benissimo, non possiamo costruire un
futuro stabile se non guardiamo verso il nostro passato. La realtà
quotidiana del mio paese terminò quella mattina d'agosto del '59.
Pioveva a dirotto e il mio destino sembrava cupo come quelle nuvole
che scaricavano tutta l'acqua sulle nostre valigie inzuppate.
Perfino il cielo sembrava piangere. La mattina dopo, con un Bonjour
tout le monde! iniziava un altro capitolo della mia vita. Mi sono
sempre considerato straniero in questo classico itinerario
dell'emigrante che abbandona tutto per rincominciare la sua vita
altrove. Un po' come un pellegrino senza santuario. Il mio modo di
pensare ancora oggi è tipicamente dialettale, forse con un dialetto
corrotto da molte altre lingue, ma continua ad essere il tugliese la
mia forma di concepire il mondo. Straniero mi sentirò sempre, perché
ho smesso di guardare la realtà da un solo lato: "Je" est un autre,
diceva Rimbaud. La lontananza ci fa vedere le cose differentemente:
il colore delle nostre campagne, l'atmosfera delle vie, gli odori
del mercato, l'allegria delle feste e l'affabilità della nostra
gente. Il mio cambio radicale incominciò proprio in Francia: dalla
quarta elementare, classe nella quale ero stato promosso a Tuglie,
mi ritrovai sui banchi della prima. Era come il gioco dell'Oca
d'improvviso rincominciavi tutto da capo. Ironia del fato? Scherzo
del destino? I maestri francesi mi parlavano di nos ancétres les
Gaulois, Giovanna d'Arco, les Guerres de Religion, di liberté,
égalité et fraternité e des droits de l'homme ma a me piacevano i
giornalini comprati sulla piazza di Tuglie: Capitan Miki e Blek
Macigno, Tex il Ranger Solitario e Akim e perfino lo scapigliato
Paperino della mitica ménagerie di Walt Disney. Così incominciò il
mio bilinguismo involontario: a scuola ero Francese, a casa
ineluttabilmente Tugliese. La mia identità culturale si alterò, già
non ero più Luigi Imperiale, mi chiamavano Louis Imperiale. Eppure
oggi quando parlo con i miei, il dialetto rimane il cordone
ombelicale che ci riallaccia alla Madre Terra. "La palabra es
nuestra morada, scrive Octavio Paz, en ella nacimos y en ella
moriremos".
Tutto sommato, non potrò mai ovviare l'educazione ricevuta in
Francia e le opportunità che ho avuto di studiare non soltanto le
lingue straniere ma anche la musica. La vita mi ha dato moltissime
soddisfazioni e grate sorprese. Ho viaggiato per il mondo e il mio
Angelo Custode ha saputo guidarmi mantenendo sempre gli occhi
aperti. Ho navigato su vasti oceani, visitato remote terre,
cristiane, maomettane, ebree, buddistiche e pagane, ho conosciuto la
giungla brasiliana, i canali di Patagonia, l'Isola del Diavolo,
l'arcipelago delle Galapagos, i fiumi infiniti e le romantiche
scogliere. Ma non ho mai dimenticato le mie radici del Salente, in
riva al mar Jonio. Altri viaggi, non meno affascinanti, si sono
svolti nei labirinti delle biblioteche e dei musei dove tuttora si
conserva l'immenso patrimonio umanistico e scientifico. Perfino le
basiliche e le cattedrali sono diventate per me vaste enciclopedie
di pietre. Dopo i quindici anni trascorsi in Francia, ne passai
dodici a Porto Rico, terra dell'estate eterna, Borinquen la
chiamavano i Taini, regno del salsero e dell'umile Jibarito. Mi
ambientai ad un'altra realtà, ad altri suoni, altre fisionomie,
altre lingue. La mentalità del Portoricano, di cultura
ispano-afro-antigliana, presenta molte analogie con quella del
meridionale. Perfino l'architettura urbana mi ricorda certi rioni
dei nostri paesi. L'influenza dell'impero di Carlo V si fa ancor
sentire dal Capo di Leuca allo Stretto di Magellano. A San Juan, sul
campus di Rio Piedras, mi iniziai ai classici della letteratura
iberica e ibero-americana. Entrarono alla rinfusa nella mia mente,
Quevedo e Cortàzar,Fernando de Rojas e Gabriel Garcia Màrques,
Garcilaso de la Vega e José Marti, Don Juan Manuel e Carlos Fuentes,
Santa Teresa d'Avila e Isabel Allende, Cervantes e Mario Vargas
Llosa, Calderón de la Barca e Juan Rulfo, San Giovanni della Croce e
Pablo Neruda, Luis de Góngora e Sor Juana Inés de la Cruz, Juan
Goytisolo ed Elena Poniatowska... Mentre a l’Alliance Francaise
insegnavo la lingua di Molière, parlavo del Siècle des Lumières,
commentavo versi dei simbolisti ed analizzavo l'esistenzialismo
sartriano. Una volta tanto mi capitava d'impartire qualche corso di
lingua e civiltà italiana all'università Interamericana. Se
considero gli anni della mia vita, mi accorgo che ho trascorso la
maggior parte del tempo parlando altre lingue: il francese, lo
spagnolo, l'inglese. Attualmente risiedo a Kansas City nell'immensa
prateria del Midwest, e sono docente di lingue e letterature romanze
all'università statale del Missouri. Mi dedico soprattutto ad
insegnare la letteratura picaresca, la poesia mistica, il Chisciotte,
la Comedia del Siglo de Oro e la poesia pastorale. Gran parte del
mio tempo lo trascorro in biblioteca -a respirare polvere- scrivendo
saggi, articoli e studi di critica letteraria in varie lingue ma,
purtroppo, quasi niente in italiano. Anche mia moglie, Tessy,
insegna alla facoltà di lettere. Sebbene i miei figli, Lorena,
Stefano e Fabio, parlino l'inglese, lo spagnolo e il francese,
capiscono abbastanza l'italiano e possono pronunciare anche qualche
frase in tugliese. Mi sentono ancora parlare in dialetto con la
nonna Esterina e capiscono tutto.
Nella ricorrenza delle feste natalizie, adorniamo la casa con
l'abete, il presepio ed altri adorni confezionati da noi stessi. Ci
rimettiamo a cantare il classico Tu scendi dalle stelle ed altre
melodie che suggeriscono amore, serenità, armonia e pace a tutta
l'umanità. Tessy, autentico cordon bleu, cucina le pucce, le pittule,
le pitteddhe, li taraddhi e li purciaddhuzzi. Il panettone e altri
dolci stagionali non mancano mai. Sebbene osserviamo la venuta di
Babbo Natale (Santa Claus) con giocattoli e dolci, non perdiamo mai
l'occasione di celebrare l'Epifania e i re Magi, con altri regali
che ostentano la generosità dell'affabile vecchietta, quella che
veniva con una penna e due quaderni. Non dimentichiamo il
significato fondamentale del Santo Natale, festa cattolica (nel
senso di universale) che ci motiva a raccoglierci in chiesa per
commemorare, non un' operazione commerciale, bensì un evento
meraviglioso: la nascita del Salvatore. A Kansas City, non si
celebra una messa in italiano, ma quella bilingue (spagnolo/inglese)
di mezzanotte raggruppa molti fedeli che rimangono con la speranza
che l'anno seguente porterà loro più giudizio e meno odio. Ho
cercato di riassumere succintamente in questo spazio testuale
l'itinerario di quaranta anni di vagabondaggio rammentando tra
vicende esistenziali e feste natalizie brevi ricordi sospesi nel
tempo. Forse la virtù più bella che mi ha insegnato la vita è stata
la tolleranza. Ho imparato a vivere con tante comunità
etnico-religiose, a comunicare con loro, ad accettarle ed essere
accettato. Sarebbe forse il messaggio più idoneo di questa fine
d'anno: imparare a tollerare.
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Tuglie...per raccontar paese...
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