Con affetto ad ANTONIO MALECORE, il Maestro cartapestaio degli ultimi 50 anni
Ero
giù di morale da alcuni mesi, nel 1986/7, perché in famiglia aveva fatto
irruzione la malattia grave e poi si era presentata la morte e mi avevano
colto impreparato – non si è mai preparati a simili eventi! – ad affrontare
tale grande tristezza.
Tra il preoccupato e l’irritato, mia moglie, emotivamente meno coinvolta, mi
suggerì una possibile via d’uscita, da percorrere gradualmente e
compatibilmente con il mio lavoro professionale: quella di frequentare,
possibilmente a Lecce, la bottega di un cartapestaio di buona fama e livello
artistico.
Bussai alla porta del laboratorio di Antonio Malecore (1922- vivente),
quello che tutti mi avevano accreditato come il Maestro per eccellenza,
ormai da decenni.
Era ubicato in Piazzetta Panzera/via degli Alami, nel cuore della vecchia
Lecce, a ridosso di Santa Irene. Attraverso un archetto secentesco, si
accedeva ad un piccolo atrio scoperto, e da qui ad una “infilata” di
stanzoni, il primo adibito a veloce vetrina delle opere appena completate,
il secondo alquanto buio a inquietante sala d’attesa per le statue in
procinto di restauro, il terzo, impregnato di odore di abbrustolito, era il
laboratorio vero e proprio, perché più illuminato direttamente dalla luce
naturale. E poi una serie di sgabuzzini e di bugigattoli dove c’era di
tutto: calchi, bozzetti, vecchie teste di santi, arti “mozzati”, un vero
bric à brac di oggetti antichissimi o moderni, tutti aventi a che fare con
la gloriosa arte che in quell’officina diventava oggetto concreto da
ammirare.
Il Maestro, allora nella maturità dei suoi sessant’anni, così come aveva
sempre fatto con decine e decine di “aspiranti” cartapestai, mi accolse e
alla prima occasione mi disse: “mi chiamo Antonio”, io gli risposi “grazie,
ma ti chiamerò sempre maestro”; mi sembrava irriverente non farlo. In quella
sua battuta si chiariva la persona di Antonio Malecore: si sentiva maestro,
con un pizzico di orgoglio, per le cose che faceva e per come le faceva, ma
sollecitava rapporti paritari con coloro che frequentavano la sua bottega
per ammirare e per apprendere. Non era geloso di alcun segreto
professionale, “tantu, finchè ‘rrevati allu livellu meu, jeu aggiu muertu…”,
non temeva alcuna concorrenza, anzi oggi, lui felicemente vivo ed ancora in
opera, ne ha riconosciuto l’eredità artistica al bravo Antonio Papa di
Surano.
Frequentai la sua bottega per un paio d’anni: appresi, guardando, tanto, ma
evidentemente non tutto, del necessario per avviare la propria esperienza,
il resto doveva compiersi sporcandosi le mani con la creta, la pònnola, la
carta intrisa, lo stucco, ecc. ecc… Paola Malecore, la nipote, esperta,
umile e garbata sua collaboratrice, mi insegnò a “informare” e sformare dai
calchi e mi diede suggerimenti e consigli senza tediare il maestro che,
quando era all’opera, era come trasportato in un intimo colloquio con la
creatura che usciva dalle sue mani.
La fase di più profonda “immersione” era per lui soprattutto la vestizione,
ma anche la coloritura della statua: dopo un canovaccio di colore, vi
ritornava più volte e sugli incarnati stendeva decine di impercettibili
velature cromatiche per giungere all’effetto veristico delle sembianze
umane.
Le sue Madonne e le Sante, diceva, “devono essere dolcissime, ma non bambole
sdolcinate”; i suoi Cristi e i Santi “sereni, rassicuranti ma maschi”.
Ripetè ciò anche quando compose, io presente, un San Pantaleone per Parabita.
Quello era il periodo in cui, innamorato della semplicità della statuaria
lignea di Ortisei, ne traeva spunto nella postura e nella coloritura delle
sue statue; negli ultimi decenni, invece, è tornato a strutture e decori più
tradizionali nella cartapesta leccese. E’ anche vero, però, che i Malecore,
nelle loro tre generazioni artistiche, hanno sempre manifestato uno stile
essenziale nei panneggi e sobrio nei decori, al contrario di altre botteghe
loro contemporanee che hanno ricalcato esempi barocchi o baroccheggianti.
Molto ancora si potrebbe dire ma la saggezza latina insegna: “ multa pro
parvis, pauca pro magnis…”
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Tuglie...per raccontar paese...
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