Mestieri e personaggi mitici di Tuglie ” Mesciu Saulle, lu carradore “
Oggi vi voglio parlare di un mestiere affascinante quello del ” Carradore ”
colui che costruiva carri, traini e sciarrabbà ( calessi ) e carrozze. Nei
ricordi di infanzia e con l’aiuto di Ida Montefusco nipote, ricostruisco la
figura di Mesciu Saulle Montefusco e di una piccola parte del mio rione ” Lu
Raona “. Partiamo dalle origini; Saulle Montefusco con il fratello Ernesto (
Toto ) provengono entrambi da Muro Leccese, qui hanno appreso tutti i
segreti del ferro, del legno e la maestria per costruire ed usare utensili
prodotti con questi due materiali, sposano due sorelle di mio nonno Gaetano
Cuppone, Natalizia e Santa e si spostano definitivamente a Tuglie.
Il carradore era anche maestro d’ascia. L’ascia è come una piccola zappa col
filo del taglio orizzontale, leggera e maneggevole, il ferro innestato alla
parte terminale del manico in legno ha una particolare inclinazione o
angolatura, a 45 gradi. La mano esperta del carradore guidava e comandava
l’attrezzo, il coltello, che con più pressione della mano affondava e
consumava il legno lì dove la circonferenza doveva essere minore. Nella
parte centrale del mozzo andavano poi ricavati gli alloggiamenti per i
raggi, e poi veniva bucata nel senso trasversale per consentire l’innesto
della parte terminale dell’asse (assale). Quando poi le ruote dovevano
essere innestate sulle parti terminali dell’asse, veniva prima applicato un
lubrificante speciale, grasso di pecora ( lu siu ), che proteggeva a lungo
le parti metalliche a contatto fra loro. Oggi tutti questi attrezzi fanno
bella mostra di sè presso il museo della Civiltà Contadina di Tuglie donate
dalla famiglia di Antonio Montefusco a Giuseppe Bernardi anima di questo
museo che raccoglie dal 1982 il meglio del nostro passato in un ala del
palazzo ducale Venturi.
Il carradore era anche un ” ferraro ” fabbro, doveva saper fare la tempera
alla punta degli attrezzi, ai suoi e a quelli che costruisce per gli altri
nei ritagli di tempo: vanghe, picconi, zappe, zapponi e zappette, perchè la
parte che colpisce ed incide, spacca, nel nostro dialetto la ” zarratura ”
il ferro diventa come acciaio, duro e resistente. Per questo deve saper
portare il ferro alla giusta temperatura fra i carboni ardenti della forgia,
poi batterlo con arte, poi surriscaldarlo ancora e alla fine, con un gesto
rapido, affondarlo per il tempo ed il tratto necessario in un secchio con
acqua fredda, lì, in quel momento avviene il miracolo, un soffio, uno sbuffo
e una nuvoletta di vapore acqueo sale nell’aria mentre la parte temperata
assume le caratteristiche volute, evidenziate da una coloritura particolare
che attraversa il ferro. L’attrezzo è di una tale semplicità che sicuramente
è uno degli attrezzi più vecchi inventati dall’uomo, chi lo sa usare ad arte
con esso spacca il legno, taglia, incide, sagoma e pialla. Il carradore
usava una grande varietà di attrezzi: raspe, lime, scalpelli, sgorbie, pinze
e tenaglie, succhielli di varie misure, trapano a mano, il graffietto per
segnare, il gattuccio, un seghetto a lama sottile, seghe a mano la cui lama
veniva tenuta in tensione da una corda intrecciata con una stecca di legno
poi fissata in contrasto al corpo centrale dell’attrezzo, e seghe più
piccole, e poi morsetti e “sergenti” (morsetti molto più grandi), pialle,
pialletti e sponderuole (pialla con corpo e ferro a registro più stretti),
compassi, squadre, per calcolare le circonferenze. Le ruote erano composte
da segmenti di circonferenza uguali fra loro, in legno, da cui, dopo
opportuno incastro, partivano due raggi, che terminavano incastrati nei fori
che facevano corona al mozzo della ruota.
Per fabbricare il mozzo si partiva da un parallelepipedo di legno di olmo
generalmente che veniva prima sbozzato con l’ascia così da ottenere come un
grosso cocomero con punte più accentuate, poi messo al tornio. La mano
esperta del carradore guidava e comandava l’attrezzo, il coltello, che con
più pressione della mano affondava e consumava il legno lì dove la
circonferenza doveva essere minore. Nella parte centrale del mozzo andavano
poi ricavati gli alloggiamenti per i raggi, e poi veniva bucata nel senso
trasversale per consentire l’innesto della parte terminale dell’asse
(assale). Quando poi le ruote dovevano essere innestate sulle parti
terminali dell’asse, veniva prima applicato un lubrificante speciale, grasso
di pecora ( lu siu ), che proteggeva a lungo le parti metalliche a contatto
fra loro. Oggi tutti questi attrezzi fanno bella mostra di sè presso il
museo della Civiltà Contadina di Tuglie donate dalla famiglia di Antonio
Montefusco a Giuseppe Bernardi anima di questo museo che raccoglie dal 1982
il meglio del nostro passato in un ala del palazzo ducale Venturi.
Il carradore era anche un ” ferraro ” fabbro, doveva saper fare la tempera
alla punta degli attrezzi, ai suoi e a quelli che costruisce per gli altri
nei ritagli di tempo: vanghe, picconi, zappe, zapponi e zappette, perchè la
parte che colpisce ed incide, spacca, nel nostro dialetto la ” zarratura ”
il ferro diventa come acciaio, duro e resistente. Per questo deve saper
portare il ferro alla giusta temperatura fra i carboni ardenti della forgia,
poi batterlo con arte, poi surriscaldarlo ancora e alla fine, con un gesto
rapido, affondarlo per il tempo ed il tratto necessario in un secchio con
acqua fredda, lì, in quel momento avviene il miracolo, un soffio, uno sbuffo
e una nuvoletta di vapore acqueo sale nell’aria mentre la parte temperata
assume le caratteristiche volute, evidenziate da una coloritura particolare
che attraversa il ferro.
Altri attrezzi erano la fucina a mantice, l’incudine, i martelli, mazze e
mazzette, pialla a banco, tornio, sega a nastro circolare, morse, banchi da
lavoro, trapano verticale. Alcuni attrezzi, col tempo, saranno mossi
dall’energia elettrica con un sistema di trasmissione a cinghia. E poi un
grande forno circolare con camino per surriscaldare i cerchioni in ferro.
Una volta cerchiata la ruota, la si innaffiava, con un getto di acqua
fredda, per favorire il raffreddamento del ferro che così tornava alla
circonferenza voluta e predestinata per stringere come in un ” abbraccio ”
le restanti parti della ruota, a cui, proprio l’abbraccio, avrebbe
assicurato vita più lunga.
I locali di Mesciu Saulle erano il mio vecchio garage di casa, oggi
fruttivendolo in via Virgilio n. 3 un altra piccola stanza era nella
proprietà Seclì, oltre il garage di casa di Antonio Montefusco ed il
giardino di sua proprietà proprio di fronte a casa sua oltre quello in via
Napoli oggi casa di Valter Giorgino che ha sposato Luigina una delle figlie
di Emilio insieme all’altra figlia Rosalba che vive con la madre Ida. Il
fratello Toto viveva a pochi metri sempre in via Napoli, si dilettava a fare
il fabbro perchè lavorava a Taranto. I figli maschi di Mesciu Saulle che io
ho sempre chiamato Zii, erano Antonio, Michele, Emilio e Attilio anche loro
in parte hanno appreso i segreti del mestiere del padre, anche loro furono
emigranti in Svizzera nel dopoguerra ma tornando a Tuglie divennero dei
mastri falegnami. Ricordo ancora il piccolo carretto che ci donavano ogni
anno in autunno con cui noi ragazzi raccoglievamo la legna e gli scarti
delle potature necessari a fare il più grande falò di Tuglie nella vigilia
immediata del Natale.
Come si può immaginare, la costruzione di un carro agricolo, con tutte le
sue varianti non era cosa da poco, così per quelli meglio adattati al
trasporto di sabbia e pietre per l’edilizia, quelli per il trasporto delle
persone, sciarabbà , le carrozze poi sostituite dal taxi, per questo Ida
Montefusco mi racconta che il nonno lavorava spesso e forniva carrozze ai
Vinci di Parabita, che svolgevano allora un ruolo di trasporto di persone
con carrozze di vario genere, con due ruote grosse dietro, due più piccole
avanti e copertura a mantice. Il lavoro di Mesciu Saulle aveva un enorme
impatto sul mondo lavorativo e l’economia locale.
In un locale protetto veniva stipato ogni tipo di legname messo lì a
completare la stagionatura, in attesa di essere utilizzato: faggio, cerro,
pino, abete, quercia e olmo; piano piano, mentre l’essiccazione procedeva,
cedeva la propria essenza profumata questa, mescolata all’acre fumo dei
carboni sulla forgia e a quello forte del sudore degli operai costituiva
l’elemento sempre presente, la caratteristica olfattiva, in uno scenario che
poteva mutare dalla pace alla bolgia fumigante e piena di scintille e
bagliori, dove comandi precisi e secchi, a cui corrispondevano altrettanti
movimenti decisi, dovevano farsi strada nel clangore della musica provocata
da martelli e mazze sull’incudine. Con Mesciu Saulle Montefusco, voglio
ricordare Mesciu Manueli, al secolo Emanuele Nocella abile saldatore e
fabbro, Totu Barone maniscalco, Mesciu Ninu Erroi, Giovanni Erroi fabbro e
tutti quegli eroi che hanno attraversato la loro epoca da veri protagonisti.
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Tuglie...per raccontar paese...
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