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L’Odore delle madri
Il suo odore mi restava sulla pelle per l’intera giornata, o almeno col pensiero lo percepivo. Un gusto amaro di tabacco impregnava i vestiti e i capelli di mia madre alla quale mi stringevo al collo e alle vesti con forza tutte le mattine prima che mi affidasse alle “cure” di una vecchia signora.
Era acre e persistente l’odore del tabacco ed era l’odore di tutte le madri che conoscevo. Ero convinto che tutte le madri lo avessero addosso, come elemento distintivo del ruolo che esercitavano, per essere riconosciute anche al buio.
Il lavoro massacrante nel grande stabilimento del tabacco, situato sulla strada che lambiva il confine del paese, iniziava al mattino alla buon’ora. Sotto allo sguardo severo della “maestra” assolvevano il compito di smistare le foglie del tabacco in base alla grandezza e alla tonalità di un colore che variava dal giallo al marrone e lo imballavano in cassette di legno, pressato in sacchi di iuta.
Raccontava mia madre quanto fosse umiliante sottostare alle quotidiane sanzioni per aver violato l’obbligo imposto del silenzio. Per una parola scambiata con la compagna vicina si rimediava almeno un’ammonizione e, per un tozzo di pane messo in bocca durante il lavoro modulato su principi feudali, si rischiava la sospensione.
Era tuttavia necessario resistere per opporsi, negli anni sessanta, all’assedio della miseria.
Era rassicurante l’odore amaro del tabacco che aveva addosso mia madre quandomi staccava a fatica le braccia dal collo ogni mattino con la promessa che sarebbe tornata presto con “tanti soldini” per comprare pane.
A malincuore capitolavo di fronte alla promessa che sarebbe tornata presto e al dogma della finalità che m’appariva ragionevole.
Rassegnato, prendevo posto nel lager ricavato in una rimessa condivisa, per metà della sua superficie, con un vecchio cavallo ruminante che sbuffava ogni tanto lacerando il silenzio e interrompendo il diffuso singhiozzo di sconsolati bambini.
Un tendone separava il locale impregnato dal lezzo del sudore della bestia e dall’immancabile letame. Condividevo la metà del locale, adibito a nido per l’infanzia,con altri bambini che avevano sotto al naso l’odore delle loro madri.
Qualcuno faticava a farsene una ragione e passava le ore a piagnucolare tra lacrimoni che rigavano il viso paonazzo e la colonna di muco che fuoriusciva e rientrava a intermittenza dalle narici seguendo il ritmo di ogni respiro e le repentine impennate del singhiozzo senza fine.
La “mescia Esterina", una vecchia austera signora sempre vestita di nero, con i capelli intrecciati e arrotolati sulla nuca, ci disponeva a cerchio, seduti sugli scanniteddri di legno che portavamo da casa e imponeva il silenzio con pochi cenni del capo.
Passavo così la giornata tra pensieri monotematici di mia madre, posta al denominatore di ogni ingenua riflessione, lo sguardo di altri bambini e l’odore di quel cavallo che si contrapponeva a quello rassicurante del tabacco sui capelli di mia madre.
L’ora del pranzo segnava una tappa che apriva nella mente il Chakra del buonumore.Aprivo il “panarinu” di vimini nel quale custodivo gelosamente il pasto da consumare per poi cominciare subito dopo il conto alla rovescia in attesa che mia madre riapparisse per prestare fede alla promessa.
Non riuscivo a liberarmi neanche della carta che avvolgeva il tozzo di pane con il resto della cena della sera prima. Era come un filo invisibile, un contatto fisico che mi teneva collegato con mia madre; quindi ne curavo l’integrità, piegando la carta più volte su se stessa per poi riporla nella tasca del grembiulino bianco,fino al suo ritorno.
Quando nel pomeriggio riappariva la sua siluette in controluce sull’uscio del grande locale, non stavo più nella pelle. Mi abbracciava e l’odore del tabacco diventava ancora intenso e il lezzo del cavallo si riduceva a una sopportabile fitta al cuore rinviata al giorno successivo.
A casa esplodevano gli odori e i colori della famiglia. Mia madre cucinava canticchiando:
“Chi gettò la luna nel rio, chi la gettò?
La luna dell’amor mio, chi la gettò?
Una grande rete di stelle io prenderò
e dal profondo del rio la luna mia ripescherò.”
e mio padre fischiettava lo stesso motivo con qualche grave anticipo sul tempo che mia madre non gli perdonava, mentre si lavava nel catino di smalto bianco retto su un treppiedi in ferro battuto.Poi si univano in coro ostentando virtuosismi vocali senza pudore e trovando intese con sguardi complici per approdare insieme al liberatorio ritornello:
“gira e volta se vuoi girar,
ma l’amore non puoi fermar,
se lo perdi lo tornerai a incontrar”
Ero felice quando cantavano insieme perché lo sapevo che in quelle occasioni non avrebbero parlato dei problemi di sempre. Mio padre non si sarebbe fatto inseguire dalle preoccupazioni della campagna dove investiva le sue energie fisiche e le poche risorse disponibili per assicurare le derrate alimentari e mia madre non avrebbe assunto quell’espressione ansiogena così angosciante.
Nel mio immaginario, l’ipotesi dell’annata “fiacca”, era dirompente e lacerava le ingenue certezze di cui avevo bisogno.
“Mancu li cani se rria facchegelata…simu ruvinati”, nel bel mezzo di considerazioni sul tema, esordiva così mia madre con l’ombra del dramma negli occhi e le mani che sprofondava in grembo.
A pensarci bene, a terrorizzarmi non erano neppure le parole ma quel tono preannunciante l’apocalisse, la smorfia che scavava il volto e la postura che conferivano al problema la gravità di una piaga d’Egitto ineludibile se non per misericordia divina.
“E nu putimu ngucciare le patate cunu saccu cusì nu gelane”? osservavo con l’onesto proposito di essere d’aiuto e contribuire con qualche suggerimento all’individuazione di un sistema per far fronte alla calamità preannunciata.
Rimediavo soltanto uno sguardo che riassumeva un sintetico ed eloquente“fatti i fatti tuoi” e quasi mai una risposta; ai bambini infondo non era riconosciuto il principio del diritto di opinione per quanto tale circostanza non mi abbia mai impedito di reclamare in tutti modi il bisogno imprescindibile di avere il mio ruolo da protagonista.
La cena era tanto attesa quanto prevedibile; quasi mai rappresentava una sorpresa. Cambiava solo con l’avvicendarsi delle stagioni: si alternavano legumi e cime di rape delle giornate invernali, ai carciofi e alle patate di quelle primaverili o alle zucchine melanzane e peperoni nel periodo estivo.
Era tutto cosi straordinariamente ostentato che sembrava abbondanza e il lamentati “bisogni” di oggi sarebbero apparsi improponibili a quei tempi. In fondo certi bisogni non erano neppure immaginati e occupavano remoti anfratti nella mente dove confluiva ogni stravagante idea di superfluo.
Quando c’era la sorpresa io la sentivo anzitempo mulinare nell’aria e la leggevo negli occhi di mio padre soprattutto.
Capitava in primavera che lui tornasse dalla campagna con l’espressione della sorpresa suo malgrado stampata sulla faccia. Era sempre una sorta di smorfia che mi metteva allegria e lasciava presagire una variante al copione quotidiano che conoscevo a memoria.
Scendeva dalla bicicletta come sempre con l’elasticità di un’acrobata cercando di reggere la parte dell’indifferente.
Mio padre non è mai stato un grande attore; a lui si leggeva tutto in volto e neanche la più semplice delle bugie riusciva ad essere celata dal suo volto.Non era difficile per mia madre leggergli il pensiero; riusciva ad anticiparlo,a prevedere ogni mossa, a correre al riparo con infinite tattiche che lo mettevano sempre fatalmente a nudo.
“Mammata a dru sta”? mi chiedeva come faceva sempre e già la smorfia si delineava netta sulle labbra che non riuscivano a contenere un solo innocente segreto.
“Ci m’hai nduttu”? chiedevo saltellando gioiosamente e lui, quasi scostante per reggere la parte dell’indifferente, replicava tradendosi sempre più: “lu fessa ca sinti”! Ormai però un altro tentativo di dissimulazione era fallito e rassegnato tirava fuori un fazzoletto annodato borbottando che con me e mia madre non riusciva proprio a organizzare una sorpresa ma in realtà non ci riusciva con nessuno.
“Le moniceddre”!!! Urlavo simulando la sorpresa per non deluderlo ma ero davvero felice che le avesse portate.
Una porzione era riservata alla nonna e le restanti venivano lavare accuratamente per liberarle dalla terra, poi si eliminava la “panna” bianca chele chiudeva assicurandone il letargo.
Quando erano poche si mettevano direttamente sulla brace e di divoravano ancora bollenti. Quando invece la quantità era ragionevole, mia madre le faceva saltare in abbondante olio una cipolla tagliata a fette e appena appassita,aggiungeva le moniceddre sgocciolate facendole cuocere a fiamma vivace. Aggiungeva due foglie di alloro e il peperoncino, un goccio di vino, pochi minuti prima di spegnere il fuoco, e le serviva calde.
Tante erano le piccole cose che lasciavano il segno di un’ingenua felicità in un paese che non cambiava mai e a Tuglie il tempo è sempre trascorso con lenta agonia e il “progresso”, all’alba degli anni sessanta, non si collocava su valori apprezzabili rispetto all’evoluzione misurabile dagli inizi del secolo.
Le novità che tuttavia da lì a poco ci sarebbero state tracciavano solchi profondi nel lento trascorrere del tempo e incidevano sulle abitudini tramandate da generazioni.
Il “modernismo” bussava alle porte insieme a un flebile vento che ben presto sarebbe diventato il tornado del sessantotto senza spazzare tuttavia il lezzo di quel cavallo sbuffante e l’odore del tabacco dai capelli di mia madre.

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