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GLI SPETTACOLI LIRICI ALL'ARENA DI VERONA
Storia e leggenda a cura di Luigi Ruggero Cataldi


“un laberinto de tanta grandeza che stupefatte fa star le persone;
largo e rotondo e de soperba alteza, edificato con tanta rasone,
che pochi pon comprendar sua fateza.

Non so se al mondo mai fusse trovato un edificio più desterminato.

De questo non se trova l'architeto, ch'il fabricasse, ne ch'il mandò a efeto.”


Con questi versi in vernàcolo veronese il poeta Berto Barbarani tratteggiava il ritratto dell'Arena, l'insigne monumento di cui la città scaligera è sempre andata orgogliosa.
Gli storici e i cantori, antichi e moderni, ci hanno fornito diverse ampie e, talvolta, curiose notizie sugli avvenimenti di diversa natura, non sempre teatrali, che hanno avuto nel corso dei secoli come cornice il grande anfiteatro.
Oltre a quelle, un gran numero di espressioni popolari e vecchie leggende, mirabilmente fuse, hanno contribuito ad arricchire il già cospicuo patrimonio culturale di Verona.
Piccole storie, eventi lieti e tristi accompagnate, alla bisogna, da comicità godibili e suggestive; preziosi ricordi inseriti in un particolare spaccato di storia locale, della quale sarebbe colpevole negligenza perderne la memoria.
Di seguito, se ne propongono alcuni.

1. IL SABBA INFERNALE
Forgiati da slanci di fantasia e schietto buonumore, alcuni efficaci modi di dire servirono ai veronesi d'altri tempi per meglio consolarsi della loro vecchiaia.
Essi sostenevano, con un'azzardata filosofia spicciola, che i loro settanta, ottant'anni e anche più, costituivano un dettaglio del tutto trascurabile di fronte ai millenni che l'Arena portava sul groppone. Ecco quindi il detto: “la Rena l'è vecia!”, subito rettificato in quello: “no è vecia gnianca la Rena, parchè l'è ancora in piè!”.
Nel medioevo si diceva, perfino, che essa fosse opera del diavolo, per via di un condannato a morte al quale era stata promessa la grazia qualora fosse riuscito a costruire, in una sola notte, un edificio capace di accogliere tutti gli abitanti della città. Il pover'uomo, allora, strinse un patto con il demonio il quale, radunato l'esercito, si mise all'opera. Al rintocco del mattutino l'orda infernale scappò precipitosamente, proprio quando aveva appena iniziato ad erigere l'ambiziosa cinta esterna, che doveva così restare con la sola testimonianza dell'ala. Il condannato ebbe salva la vita, sia pure a caro prezzo poiché il diavolo pretese, quale compenso, di diventarne il padrone.

2. DECADENZA E RINASCITA
Nel 1882 il fiume Adige mise in ginocchio la città poi, con il procedere della stagione invernale, sembrava acquietarsi mostrando di perdere il suo selvaggio vigore.
Ma molte povere case non esistevano più! La popolazione disastrata chiedeva un tetto e, per tutta risposta otteneva di “andar a star sotto i còoli de la Rena”. Solo a pochi fortunati fu possibile assicurare un giaciglio. L'Arena era ferita a morte; degrado e sporcizia ovunque sebbene, di tanto in tanto, ospitasse spettacoli e feste di vario genere. Gli arcovoli ormai avviliti vennero trasformati, fra il generale disinteresse, in infimi tuguri e luoghi di convegno per donne di malaffare, allora etichettate come “quelle poarine che stanno in Bra”.
Il crescente disagio per l'indecorosa situazione sfociò in vibranti proteste della gente esasperata, tanto da indurre le autorità a porvi immediato rimedio. Dopo lunghi e mirati interventi di restauro, all'Arena vennero restituite la dignità e il prestigio dovutigli. Si era, ormai, agli albori del XX secolo, quando per venti sere consecutive, fra giugno e luglio del 1900, venne rappresentato il ballo “Pietro Micca” di Romualdo Marenco: “Uno spettacolo così grandioso a Verona non lo vedremo forse mai più!”, veniva scritto. La stampa errava, e di grosso!

3. LA PRIMA STAGIONE LIRICA
L'Arena possedeva dunque tutti i titoli per essere considerato il più grande teatro all'aperto del mondo. Ma l'idea di adibirla ad enorme palcoscenico per rappresentazioni liriche appariva quantomeno ardita, poiché non sembrava che quell'immensa cavea a cielo aperto avesse le proprietà acustiche necessarie.
L'occasione per saggiarne la fattibilità si presentò casualmente in una torrida giornata di giugno del 1913, allorché il tenore veronese Giovanni Zenatello, da poco rientrato dall'America reduce dai successi ottenuti al Metropolitan di New York con Aida e Otello, smanioso di realizzare al più presto un suo progetto per commemorare il centenario della nascita di Giuseppe Verdi, iniziò a discuterne con il mezzosoprano Maria Gay -che poi divenne sua moglie- i maestri Tullio Serafin e Ferruccio Cusinati, accompagnati dall'inseparabile amico Ottone Rovato, comodamente seduti ad un caffè di piazza Brà. Apparentemente assorto, istintivamente Zenatello guardò l'Arena ed esclamò: “ecco il grande teatro che vado cercando e che, io penso, si può prestare per fare delle fantastiche rappresentazioni di opere liriche. Basterebbe che avesse una buona acustica, il resto c'è tutto. Lo vedo già. Perché non andiamo subito a provare le voci?”.
In un attimo il gruppetto si portò all'interno dell'anfiteatro. Zenatello di slancio salì in alto, sui gradoni, di fronte al podio che sovrasta il boccascena dov'erano rimasti gli altri e, con gli occhi rivolti al cielo ormai stellato, intonò una poderosa “celeste Aida!.
Il maestro Serafin, attento a valutare la produzione, propagazione e ricezione del suono, sull'ultima nota della romanza, gridò: “BRAVO!”.
Zenatello comprese subito che l'acustica aveva retto alla prova. Ma non era sufficiente; occorreva approfondire. Al chiaro di luna i cinque, furtivamente, varcarono nuovamente il maestoso ingresso del monumento avanzando fino all'ampia cavea.
Qui, nell'assoluto silenzio e distanti l'uno dall'altro, essi iniziarono a strappare strisce di carta. Dal centro della platea il fruscio venne recepito distintamente fino alla sommità delle vetuste gradinate.
Il giorno seguente, invitati alcuni professori d'orchestra, un oboe, un flauto, una tromba e un violino, il maestro Serafin eseguì la decisiva prova d'insieme. Alla fine, disse. “Magnifico, possiamo cominciare”.
E la scenografia? Dopo breve conciliabolo si decise di affidare l'incarico a Ettore Fagiuoli, giovane architetto veronese. In quel suo primo allestimento egli realizzò, in soli due mesi, una colossale e convincente messinscena. Il maltempo aveva ostacolato molte prove, compresa quella relativa ai movimenti della masse corali e coreografiche e, proprio in questa circostanza, “si ebbe il singolare spettacolo di vedere gli antichi egizi, sacerdoti e schiavi, sfilare solenni in soprabito, con tanto di ombrelli aperti”. Ma la sera della première, il cielo si presentò tutto ingemmato di stelle.
La più grande rappresentazione lirica del mondo ebbe così inizio, fra il generale entusiasmo.

4. LA STORIA DEI “MOCOLETI”
Si ritiene necessario premettere che fino alla fine dell'ottocento gli spettacoli in Arena si effettuavano solo di giorno, considerato che il sistema di illuminazione con torce, olio e gas non si prestava per allestimenti serali. Le cronache dell'epoca informano che il 18 ottobre 1880, essendo lo spettacolo in Arena protrattosi fino ad ora tarda alcuni spettatori, nell'intento di guadagnare l'uscita senza pericolo di inciampare nello scendere i gradoni, ricorsero all'accensione dei “fuminanti”.
La provvida decisione fece gridare alla meraviglia quando, per spirito di emulazione, le migliaia di spettatori che procedevano a tentoni inondarono il magico anello di un tripudio di tremolanti fiammelle. Il Consiglio della Società, gestore degli spettacoli, folgorato dalla casuale intuizione, decise di farla propria e, debitamente regolamentata, venne poi proposta al giudizio del pubblico nella recita successiva. A coloro che acquistarono un “viglietto” d'ingresso venne dato un “mocoleto” da accendersi, in contemporanea, verso l'imbrunire.
Sfortunatamente, l'impazienza di pochi anticipò il fatidico momento “quando l'aria non era ancora oscura abbastanza perché avesse a sortire il suo pieno effetto”.
Nondimeno l'esperimento riuscì tanto sorprendente da superare ogni attesa.
Nel corso della preparazione del grande spettacolo del 1913, qualcuno fra le maestranze ricordò quell'avvenimento e, senza alcuna esitazione, lo propose a chi di dovere.
Gli organizzatori, assai disponibili, incaricarono la Croce Verde di distribuire “a prezzi popolari” un mocoleto ad ogni spettatore, avendo l'accortezza di avvertire, nel contempo, che esso doveva essere acceso nell'intervallo fra il secondo e il terzo atto quando, al segnale convenuto di uno squillo di tromba, sarebbero state spente le luci. Così, in occasione della sesta e settima recita di Aida, i mocoleti vennero accesi a migliaia. Un irrefrenabile entusiasmo pervase gli spettatori presenti i quali, impossibilitati ad applaudire per non far cadere l'umile fiammella, si lasciarono andare in un assordante muggito di meraviglia; e ci fu anche chi pianse per l'emozione. Negli anni successivi, all'accensione dei cerini si aggiunse lo sventolio dei fazzoletti per la gioia del pubblico che cominciava a godere lo spettacolo di se stesso, prima di quello offerto sul palcoscenico.

5. IL LIETO EVENTO
Il 18 agosto 1913, per la quarta recita di Aida l'Arena apparve “mostruosamente gremita”. Per l'intera giornata treni, automobili, carrozze, carrettelle e biciclette, riversarono in città un'enorme numero di forestieri, pronti a ricoprire fin dal pomeriggio le gradinate riarse dal sole, “e a cenarvi, con sporte turgide di cibarie e contorno di fiaschi”.
Lo spettacolo iniziato all'ora stabilita proseguì in modo regolare, interrotto ogni tanto da un subisso di applausi. Al primo intervallo un concitato vociare proveniente dall'anello superiore, richiamò la generale attenzione verso una giovane donna la quale forse per l'afa opprimente, la calca e il disturbo provocato dal continuo andirivieni dei venditori di “noselete”, numeri unici, cartoline e souvenir vari, aveva perso i sensi. Alcuni dei presenti gridarono :”un po' d'aria, fate largo”, spingendo indietro i curiosi. Una donna seduta nei pressi, con fare delicato, chinandosi sulla malcapitata la liberò dallo stretto bustino e la rinfrescò con spruzzi d'acqua sulle guance. La giovane reagendo alle amorevoli cure, mostrò di accusare dolori all'addome. Subito quattro possenti braccia, l'accompagnarono a pianoterra fra gli arcovoli. Sul posto dell'accaduto rimasero in bella vista alcuni indumenti della donna. La gente riunita a capannelle cominciò a bisbigliare e, ad un tratto, si udì un grido liberatore: “in Rena l'è nato un putìn!”. E per il resto della serata non si fece altro che parlare di quell'evento veramente memorabile.




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