RICORDO DELL’EROICO MARESCIALLO MARCONISTA LUIGI
VENUTI DA TUGLIE,
MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE NELL’ULTIMA GUERRA,
DA UN ARTICOLO DEL SUO COMANDANTE GIULIO CESARE GRAZIANI SU
“AVVENTURE DEL CIELO”.
Il 5 febbraio del 1942, a 20 miglia da Tobruch
(Africa Settentrionale)
di Giulio Cesare Graziani
La
recente, e per me tanto dolorosa, scomparsa del M.llo Marc. Luigi Venuti mi ha
riportato alla memoria una drammatica, quanto sfortunata, vicenda da me vissuta
con lui nel 1942 e che qui di seguito rievoco in onore di questo valoroso
specialista, nonché, dando un significato emblematico alla sua persona, di tutti
gli specialisti della nostra aviazione, preziosi e fidati compagni dei piloti in
ogni circostanza e assai sovente accomunati in sublimi olocausti.
Il 15 gennaio dell’anno precedente, la 281° Squadriglia Autonoma Aerosiluranti,
al comando del leggendario Cap. Carlo Emanuele Buscaglia, era stata disciolta
con assegnazione del relativo personale al 41° Gruppo Autonomo Aerosiluranti, di
stanza anch’esso a Rodi e al quale io appartenevo.
In tale occasione ritrovai l’allora Serg. Venuti, da me precedentemente
incontrato quando egli era membro dell’equipaggio del Cap. Buscaglia.
Il 5 febbraio, mentre il Gruppo era in attesa dell’arrivo del suo Comandante, il
prestigioso Ten. Col. Ettore Muti, mi giunse l’ordine da parte del Comando
Aeronautica dell’Egeo, retto dal Gen. Ulisse Longo, di andare ad attaccare una
grossa petroliera che, carica di carburante e fortemente scortata, stava
dirigendosi verso Tobruch in piena velocità per rifornire d’urgenza le unità
inglesi, impegnate in quei giorni in una dura battaglia sulle sabbie della
Cirenaica.
Misi immediatamente in moto il mio “S.M. 79” e in un baleno decollai verso
l’obbiettivo che mi era stato segnalato. Membri dell’equipaggio: M.llo Pil.
Giovanni Riso, Serg. Mot. Teresio Pavese, Serg. Marc. Luigi Venuti, 1° Av. Fot.
Tommaso Di Paolo, Av. Sc. Arm. Carlo Galli.
Contemporaneamente prese il volo, diretto verso lo stesso obbiettivo, un secondo
velivolo al comando del Cap. Giuseppe Cimicchi, ma di lì a poco, a causa di uno
spesso strato di nubi, ci perdemmo di vista.
Incrociai la petroliera a circa 20 miglia da Tobruch. Di scorta sette
Cacciatorpediniere, di cui quattro sul lato destro, cioè a nord e tre sul lato
sinistro, dalla parte della costa africana, a chiara difesa da eventuali
attacchi portati da sommergibili.
E subito fu un infernale fuoco contraereo. Ciononostante, tenendo bene a mente e
parole che il Gen. Longo mi aveva personalmente rivolto nell’ordinare la
missione in argomento, precisandomi come da questa poteva dipendere l’esito
della battaglia in atto in Pirenaica per potere venire a trovarsi gli inglesi
privi di carburante, non ebbi alcuna esitazione e seppure -ovviamente- preso da
una forte tensione, puntai deciso verso la petroliera.
Ad un tratto mentre mi accingevo ad eseguire la manovra d’attacco, vidi
schizzare sul parabrezza materia grigia e sangue, sentendo in pari tempo sul
collo il caldo di una materia liquida. Capii subito che cosa ciò significasse e,
fatti tacere a forza viva lo sgomento e l’orrore che erano scesi nel mio animo,
continuai l’iniziata manovra d’attacco. Quindi, giunto a distanza ravvicinata
dalla petroliera, azionai lo sgancio del siluro. Maledizione! Udii il flusso
dell’aria compressa che usciva dal circuito pneumatico mediante il quale si
comandava lo sgancio del siluro, trasalii; il siluro non era partito e quasi
certamente, ritenni, perché colpito il succitato circuito da qualche proiettile
della contraerea.
Appena fuori dalla rosa del tiro dei cacciatorpedinieri inglesi, Venuti mi si
avvicinò per confermarmi, con il volto segnato e la voce alterata da una rabbia
furente mista ad un lacerante avvilimento, che il siluro non si era staccato per
il motivo supposto.
Due possibilità a questo punto mi si offrivano: riprendere la strada di casa o
portarmi ancora sotto la petroliera, da sud, e fare ricorso allo sgancio
meccanico del siluro.
Ed è quanto feci in mezzo ad un nuovo, e più che mai violento, fuoco di
sbarramento. La sorte, però, fu decisamente contro di me, in quel 5 febbraio del
1942. Infatti, anche lo sgancio meccanico non funzionò perché, come Venuti poté
osservare e subito riferirmi, l’asta d’apertura dei ganci delle due braghe che
tenevano il siluro era stata tranciata da un altro proiettile che il velivolo si
era preso. Sfumato, così, anche questo tentativo e non esistendo alcun altro
meccanismo di sgancio, mi fu giocoforza -erano le 17,30 e già calava la sera-
riprendere tristemente la via del ritorno e, inoltre, con due angosciosi
interrogativi: ce l’avrebbe fatta l’aeroplano, tanto male conciato come esso
era, e per di più on la radio in frantumi, ad arrivare a Rodi? E anche se ciò
fosse avvenuto, non esisteva forse il pericolo, assai probabile, stante le
condizioni dell’aeroplano, di incappare in un atterraggio fortunoso con la
conseguente esplosione del siluro?
Ecco che cosa, intanto, era accaduto a bordo: il 1° Av. Fot. Di Paolo era stato
colpito da una raffica di mitragliatrice che gli aveva fatto saltare la scatola
cranica con, naturalmente, morte istantanea; il 2° pilota M.llo Riso si era
preso due schegge ad un polmone; il Serg. Mot. Pavese aveva perduto due dita
della mano sinistra; l’Av. Sc. Arm. Galli era stato gravemente ferito al femore
sinistro. Illesi eravamo solo Venuti ed io.
Fu certamente grazie alla Madonna di Loreto se nella subentrata notte illune,
con il cuore in gola ad ogni sobbalzo o scricchiolio del velivolo, fu possibile
rientrare a Rodi e ad atterrarvi, tutto sommato, in maniera regolare. Il mio
caro e tanto generoso S.M. 79 aveva bravamente retto.
Non poca sorpresa al nostro arrivo: tutti ci avevano dato per scomparsi in fondo
al mare, non avendo potuto dare io alcuna comunicazione essendo sta la radio
ridotta in frantumi. Quanto mai utili mi furono in tale occasione l’aiuto e il
conforto del Serg. Venuti in virtù della sua vivida intelligenza, lunga
esperienza di volo, coraggio fisico e morale: doti, che egli ebbe ancora modo di
mettere in risalto quando nel luglio del 1943, nel corso di una missione contro
navi anglo-americane nelle acque di Siracusa, il velivolo sul quale egli si
trovava, e ai cui comandi era il Cap. Di Bella, fu costretto ad ammarare, per i
colpi incassati al largo della costa calabrese.
Recuperato, assieme all’equipaggio di cui faceva parte, da nostre unità navali,
Venuti rientrò subito in Squadriglia e se ne tornò immediatamente in volo
affrontando nuove dure battaglie, combattute tutte dagli aviatori italiani
ancora con uno strenuo impegno pur nella piena coscienza di una guerra ormai
irrimediabilmente perduta.
Sono passati da allora tanti anni, ma limpida è rimasta nella mia mente la
figura di questo bravissimo specialista e, con una struggente commozione, l’ho
rivisto lì accanto a me con il suo viso dolce e fiero, con i suoi gesti sempre
sicuri sia durante l’attacco e che lungo la tormentata rotta di rientro, là,
dentro quell’aeroplano che, sebbene crivellato di colpi, si era quasi
intestardito con quell’ultimo nobile gesto “umano” -chi dice che gli aeroplani
sono macchine e, pertanto, senz’anima?- nel riportare a casa due uomini vivi,
uno morto e quattro feriti al termine di una missione che il destino aveva fatto
fallire.
Dopo la recente perdita del carissimo amico Cimicchi e questa del mio
specialista, in pochi siamo rimasti della “pattuglia” di Rodi. Si possono
contare sulle dita delle mani.
Ma per quanto tempo ancora?
Ciao, Venuti e, come già detto per l’indimenticabile Peppino Cimicchi quando
egli ha spiccato il suo volo senza ritorno, anche a te arrivederci!
Giulio Cesare Graziani
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Tuglie...per raccontar paese...
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