Nel mio
antico paese c'è un luogo della memoria che non si cancella mai. Le
"Tagliate" (tajate in dialetto) della contrada "Li Monaci", sulla
collina della strada provinciale che da Tughe porta a Collepasso. Questo
luogo della memoria è ancora oggi sul confine tra l'agro tugliese e
quello parabitano. Un luogo al cui interno, recentemente (anni '70) è
stata fatta l'eccezionale scoperta della Grotta delle Veneri, che tanta
rinomanza ha portato all'intero Salente. Ma non per ciò tale luogo è
incancellabile dalla mia memoria, nonostante che in quella Grotta,
anch'io, ancora giovanissimo, ci ho messo piede nel momento in cui gli
archeologi salentini e toscani andavano scoprendo quel tesoro
dell'umanità che sono le due Veneri paleolitiche. No, non per questo. La
mia memoria è legata a quel luogo (non so se ancora oggi esistente), che
si trovava tra le coordinate costituite dalla "Masseria vecchia" dal
"Casino dei monaci" e dalla Discesa agricola che dall'agro di Tuglie
porta verso Parabita al di là della strada ferrata. Un luogo magico,
incantato, fatato. Un motivo, per me sicuramente ancestrale: mia madre
mi confessò che lì, nella Tagliata, mi aveva concepito un inizio
d'estate di tanto tempo fa. Sarà forse per questo, forse anche per
altro, che sono rimasto ad esso legato. Comunque, in questo
straordinario luogo della memoria, mia nonna mi ha pure cresciuto, forse
un po' come un gufo di alta parete di cava. Nella grande Tagliata,
finché c'è stata la necessità, ha vissuto tutte le buone stagioni di
ogni anno la mia famiglia.
-"Vai a prendere l'acqua dalla cisterna", mi comandava la nonna. Ed io,
spaventato come un passerotto appena uscito dal nido, mi recavo con le
gambe tremanti verso la capiente cisterna che si trovava al di fuori del
recinto della tajata. Non riesco a ricordare il numero degli
alberi di fico che crescevano in quel luogo. Ma nella mia mente li
rivedo oggi come tantissimi. Grandi, medi, alcuni anche nani. Tutti però
abbondantissimi di straordinari frutti di ogni grandezza e di multiformi
colori. Erano questi splendidi alberi che facevano da cornice alla
spelonca nella quale vivevamo, nel senso che mangiavamo quando c'era da
mangiare, e dormivamo quando c'era da dormire; e questo perché l'intera
famiglia di mia nonna consisteva, tra mariti, zie e nipoti più di 15
persone. La spelonca infatti non era più grande di tre metri per tre, ed
era ricavata da un grande sperone di parete inclinatosi su di un fianco
con tre muri a secco che la richiudevano e che mio padre aveva tirato su
alla meglio. Eppure in questo angusto luogo tutta la famiglia riusciva a
stare. Bisognava stare. Perché c'era un compito primario da assolvere:
raccogliere i fichi, spaccarli e quindi distenderli al sole per
la seccatura.
Solo recentemente mi hanno detto in paese che i fichi secchi
provenienti dalla Tajata dell'Antonietta, detta La
Mìlòrdana, erano tra i migliori. Ciò non era dovuto, almeno
credo, alla bravura di mia nonna nel tagliarli e seccarli, e neanche
alle buone cure della scelta dei frutti fatta da mia madre e dalle
sue tre sorelle; piuttosto credo che il giudizio positivo provenisse
dal fatto che i fichi crescevano e venivano essiccati in un luogo
composto essenzialmente da polveri di tufo, a loro volta fortemente
profaniate da moltissime erbe aromatiche che lì crescevano
spontaneamente, come il timo, la salvia selvatica, le differenti
specie di origani, la mentuccia, gli spessi e verdissimi uluzzi,
altre erbe e arbusti ancora. Sarà stato sicuramente questo intreccio
di terre, odori, condizioni climatiche a dare loro quel
caratteristico sapore ai fichi secchi di quei posto. I
lavoratori della Tajata (i famosi zzoccaturi) andavano
matti per questi fichi,della mia nonna e, al mattino presto, spesso
all'alba, si calavano nei punti meno controllati e facevano delle
grandi scorpacciate. |
foto Caputo |
Non so quale straordinario senso visivo o di calcolo
percettivo avesse mia nonna, però era inevitabile che subito si
accorgesse dell'ammanco, per cui per tutto il giorno se ne andava
girando per la Tajata lamentandosi per quell'innocuo, tutto
sommato, furto. Bambino com'ero, non comprendevo la natura profonda del
danno che quei giovani zzoccaturi arrecavano a quella povera
vedova della mia nonna, per cui, quando ciò accadeva, me ne stavo
nascosto sotto il grande fico accanto alla spelonca nell'attesa di
vedere ritornare il sorriso sulla sua faccia. Cosa potevo capire allora?
Solo molto tempo dopo, un grande vecchio del paese mi fece sapere che
quella buona donna si portava dentro un dolore immenso: il marito,
ancora giovanissimo, era stato "precipitato" da mano fascista proprio in
una di quelle Tajate, e per ironia della sorte, quel qualcuno che
aveva commesso il delitto si era poi prodigato per far sì che alla
vedova, rimasta sola con quattro figlie femmine, delle quali la più
grande, mia madre, aveva solo nove anni, fosse data in affitto (ma è
meglio dire un affitto quasi per niente) una di quelle immense cave,
all'interno della quale piantare gli alberi di fico e dei loro frutti
cibarsene e lavorarli per poi meglio venderli. "Il cielo si
sta oscurando a temporale. Corri Maurizio, corri, corri a prendere le
coperte che copriamo i fichi messi a seccare. Corri, altrimenti questo
inverno non mangeremo nulla", mi implorava la nonna. Ed io, come un
puledro che trotterella, correvo a prendere ogni sorta di copertura che
potesse servire al salvataggio dei preziosi frutti. Il temporale poi
arrivava per davvero, ed erano fulmini e tuoni impressionanti lungo
tutta la Tagliata. Io tremavo assieme alle foglie di quegli alberi di
fico sotto la pioggia d'estate. La mia nonna allora, metteva tutta
intera la sua famiglia in piedi sui pagliericci della spelonca e li ci
faceva pregare a voce alta:
"Alzati San Giovanni e non dormire
che vedo tre nuvole camminare:
una d'acqua
una di vento
una di forte maletempo
Alzati San Giovanni e non dormire
e portale presso una riva di mare
là dove non canta gallo
là dove non luce luna
là dove non nasce anima creatura".
Io però continuavo ugualmente a tremare.
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