Benedetto si girò a guardare l’uscio di casa per l’ultima vota, incrociò lo
sguardo di sua madre e trattenne le lacrime che da li a poco avrebbero rotto gli
argini di ogni ritegno.
Lo sguardo attonito delle sorelle era inchiodato sulla scena. Benedetto aveva
appena annunciato un proposito fermo e loro erano consapevoli che quanto stava
per compiersi sarebbe stato irreversibile e avrebbe cambiato la vita di tutti
per sempre.
Lucia era ancora una bimbetta e si era aggrappata alla sua gamba con le lacrime
agli occhi. Sperava di trattenerlo, cercava dentro se stessa una forza
improbabile per arrestare il corso degli eventi che stavano per compiersi.
“Non andartene via Benedetto”, lo supplicava a desistere, a non
lasciarla da sola, a tornare sui suoi passi.
Lucia non aveva ancora undici anni quando Benedetto decise di andarsene per
sempre. Capì anche lei che non avrebbe più rivisto suo fratello quando Benedetto
suggellò con gestualità perentoria ciò che nessuna parola avrebbe potuto meglio
sintetizzare le sue intenzioni.
Andava “alla Merica” un luogo lontano più della Luna perché, a differenza
di questa, non si poteva neanche vedere.
Benedetto si piegò sulle ginocchia, prese Lucia tra le braccia e la strinse
forte a sé baciando le sue guance rubiconde e le lacrime l’ebbero vinta. Rimase
così con gli occhi chiusi per qualche momento, poi stacco le braccia della
bambina dal collo e col piede tracciò lentamente per terra un segno di croce.
Tranquillizzò Lucia accarezzandole i capelli arruffati mentre sussurrava che non
l’avrebbe mai dimenticata. Guardò sua madre per l’ultima volta con gli occhi
ancora gonfi di pianto e disse le ultime cose che l’intera famiglia non avrebbe
mai più dimenticato: “Diglielo tu a mio padre che ci rivedremo dopo la morte
se la morte saprà cancellare ogni reciproco risentimento”.
Si mise a tracolla la sua bisaccia con dentro le poche cose che aveva, infilò
dentro il tozzo di pane e i fichi secchi che sua madre porgeva, poi abbozzò un
saluto con la mano e si allontanò di corsa verso suo destino.
Benedetto era il primogenito di otto figli e a Tuglie ci abitava ormai da
quindici d’anni, da quando suo padre Luigi, il mio bisnonno, decise di lasciare
Palmariggi, il suo paese natale, per scappare dalla vergogna di essere guardato
come discendente di un nobile decaduto per colpa del vizio e del gioco.
Mia nonna mi raccontava nelle silenziose serate d’inverno, quando lo scoppiettio
dell’ulivo che ardeva nel grande camino sottolineava come colonna sonora gli
eventi rievocati dalla sua voce tremante, che suo nonno era un barone e che in
una notte dilapidò un’intera fortuna.
Bruciò in una sola notte denaro, terre e ogni altro avere. Avrebbe anche puntato
la moglie sul tavolo del gioco se questa non si fosse energicamente opposta.
Finì la vita mendicando tra i nobili suoi pari senza pentirsi mai delle sue
azioni scellerate. “Guardate il mio stato” esordiva quando elemosinava
rivendicando un rango al quale non rinunciò mai fino alla fine dei suoi giorni.
I miei bisnonni vennero ad abitare a Tuglie, qualche anno prima dell’inizio del
nuovo secolo, con i figli Benedetto, Paolina, Assunta e Apollonia. A Tuglie
invece nacquero poi Antonio, mia nonna Lucia e la sua gemella Marta nel 1902 e
infine Luigia nel 1909.
Il mio bisnonno aveva un alto grado di istruzione; ai tempi circostanza assai
singolare. Fu “maestro” di tanti a Tuglie e, tra l’altro, era anche un bravo
artigiano ed esperto nella costruzione di muri a secco, di strade e furneddri.
Aveva tuttavia la mentalità di un mujaheddin e negò di proposito qualsiasi
istruzione alle figlie, stante l’idea che aveva sul ruolo delle donne. Mia nonna
imparò a leggere e scrivere di nascosto, usando i libri che in casa certo non
mancavano, ma visse nel dogma dell’infallibilità della Chiesa e delle sue
gerarchie inculcate dal padre padrone.
Benedetto aveva un livello di istruzione eccellente e, per quanto ciò non lo
preservasse dalle fatiche e dagli stenti che flagellavano l'’intera popolazione
del sud reduce dalla disastrosa unità d’Italia, sognava di spiegare le ali verso
mondi nuovi. Aveva nel sangue il demone della ribellione, lo sprezzo per le
regole ipocrite e bigotte e un senso così compiuto di laicità che sfociava in
aperto e sistematico conflitto con suo padre.
Non esisteva nessuna premessa per posizioni di compromesso nella mente di
Benedetto. Detestava Giolitti che aveva appena stretto un patto con le gerarchie
ecclesiastiche attraverso l’uomo di fiducia di Pio X, Vincenzo Gentiloni, per
arginare qualsiasi rischio di avanzata socialista, marxista e anarchica. Anche
la riforma elettorale del 1912, che avrebbe introdotto il suffragio universale
riservato solo al sesso maschile, Benedetto la percepiva come un insostenibile
imbroglio, come cedimento inconcepibile verso la madre di ogni immoralità: la
guerra! Più che "igiene dei popoli", come la definiva Marinetti, la guerra era
vista da Benedetto come la bestia immonda nelle mani dei potenti che falcia la
vita degli umili.
Non perdonava ai socialisti di aver barattato con Giolitti la promessa del
suffragio universale maschile in cambio di una posizione conciliante sulla
guerra italo-turca (nota anche come guerra di Libia) combattuta dal Regno
d'Italia contro l'Impero Ottomano tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912,
per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica.
Benedetto era nato con la testa generatrice di sogni in un’era così poco
generosa con quelli che lui coltivava nella mente. La realtà lo inchiodava a una
quotidianità senza scampo, a un mondo che percepiva sbagliato e che esercitava
su di lui una gravità dalla quale non riusciva a sfuggire e che schiacciava la
sua anima con il suo peso.
Non aveva molti interlocutori e i suoi pensieri spesso restavano confinati negli
spazi ideali che la sua mente riusciva a creare.
Lavorava fianco a fianco con altri giovani di Tuglie nello scavo della collina
calcarea sovrastante il paese per aprire alla ferrovia un passaggio nella roccia
per abbattere i dislivelli del terreno. Condivideva con altri coetanei la fatica
ma i suoi sogni volavano su latitudini incomprensibili a chi accarezzava sogni
più palpabili e indifferibili per il bisogno e per la fame.
Le condizioni di vita erano severe ed erano amare ancora le conseguenze
sull’economia generale del Salento anche a seguito del devastante attacco di
peronospora che aveva distrutto interi raccolti viticoli negli anni precedenti.
La realizzazione del tratto della ferrovia del capo di Leuca, Nardò-Casarano,
lungo il quale sarebbe stata realizzata la stazione a Tuglie, favoriva qualche
entusiasmo ma non arrestava il flusso migratorio verso l’America.
“Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar...“ cantavano i
braccianti nella terra arsa dal sole rovente.
L'America aveva un significato speciale e più che un luogo geografico
rappresentava il sogno di un cambiamento possibile. Bastava solo racimolare il
gruzzolo sufficiente per acquistare il biglietto e scappare con la prima nave
transoceanica.
Benedetto non sognava l’America ma la libertà.
Sognava una libertà che ai tempi non era neanche concepita e che sarebbe apparsa
così stravagante da non trovare proseliti neanche tra gli anarchici
individualisti più ortodossi.
Sognava di liberarsi dai luoghi e dal tempo che lo inchiodavano sulle anguste
latitudini di una realtà che lo stritolava. Sognava di ricominciare la vita con
regole nuove modulate sul modello di mondo che il suo pensare accarezzava,
sognava ambiti di libertà che non si conciliavano con il modo di fare e di
pensare di un padre-padrone bigotto che reclamava su di lui diritti
indisponibili e inalienabili e che amministrava anche l’aria che lui riusciva a
respirare.
Sognava amori diversi da quelli stereotipati che osservava ogni giorno e
legittimati dai riti e dalle consuetudini sociali.
Benedetto percorreva veloce i sentieri della sua mente e sorvolava mondi
improbabili governati da regole che prendevano forma nei suoi pensieri più
intimi. La realtà era insostenibile turbolenza del sogno della vita che
programmava.
Era tuttavia consapevole che le pulsioni esaltate dal suo individualismo
sarebbero state probabilmente senza riscontro e sproporzionate con l’oggettività
del destino possibile in un momento in cui il vento di guerra iniziava a
soffiare sulla vita di tutti.
Il sole era quasi allo zenit e era rovente più che mai in quel lunedì 3 giugno
del 1913.
Benedetto e suo padre, per poco più di una lira a giornata, lavoravano la terra
infestata dall’erba per prepararla alle nuove colture, in qualità di braccianti.
I braccianti discutevano grossolanamente sulla legge che aveva introdotto il
suffragio universale maschile, approvata pochi giorni prima dal Senato. Più che
opinioni sembrava una sagra dei luoghi comuni.
Benedetto sciolse le briglie al suo pensiero libero che spagliò velocemente in
un alterco irreversibile con suo padre.
In un attimo decise che non avrebbe più sopportato, che quello era il momento di
essere coerente con i pensieri e i sogni che coltivava da sempre. Scagliò la
zappa che aveva in mano e scappò via sapendo che sarebbe stato per sempre.
Quando Benedetto girò l’angolo con la sua bisaccia a tracolla, mia nonna sperava
che il fratello più amato sarebbe rientrato prima del tramonto come faceva ogni
sera. Non smise mai di aspettarlo fino a quando non seppe della la sua morte nel
1944.
A Tuglie esisteva in quegli anni una succursale della Compagnia Fabre di
Navigazione. Fu tramite questa che Benedetto riuscì ad ottenere i documenti
necessari per l’espatrio.
No so come abbia potuto racimolare il denaro necessario per i biglietto che
costava una vera fortuna. Il prezzo era compreso tra centocinquanta e
centonovanta lire; almeno cinque mesi di lavoro.
Partì da Gallipoli per raggiungere il porto di Napoli dove si sarebbe imbarcato
sulla nave RE d’ITALIA per raggiungere l’America.
La nave era stata costruita a Sunderland, in Inghilterra dalla compagnia di Sir
James Laing. Era lunga 131 metri e larga 16, con una stazza di 6560 tonnellate.
Raggiungeva i 14 nodi di velocità ed era in grado di ospitare 2020 passeggeri,
1900 dei quali di terza classe. Erano però molte più di 1900 le anime sul ponte
e nella stiva della Re D’Italia che stringevano i denti e pensavano che anche
questa sofferenza era ricompressa nel prezzo da pagare per raggiungere la terra
sognata: la “Merica” .
Erano pochi i viaggiatori di prima e seconda. Il carico umano era convogliato
negli alloggiamenti collettivi e popolari di terza classe. Gli ambienti
riservati agli emigranti costringevano a condizioni di vita precarie, con
un’igiene approssimativa, una promiscuità disumana. Era concreto il rischio di
malattie, e nel passano non erano stati pochi i casi di epidemie scoppiate a
bordo.
Anche la traversata contemplava una serie di pericoli legati alle difficoltà
della navigazione. Era già accaduto che viaggi della speranza si fossero
conclusi tragicamente anche con il naufragio. D’altra parte era passato appena
un anno dall’affondamento del Titanic costruito per lanciare una sfida diretta
anche a Poseidone.
Benedetto sognava una libertà che si coniugasse con i sogni. Con le mani
incrociate dietro alla nuca sfidava il vento a prua mentre nella mente
prendevano forma fotogrammi della sua vita.
Non la conosceva lui l’America ma preferiva sognarla a modo suo e nei sogni, si
sa, non esistono linee nette di demarcazione. Oscillavano i suoi pensieri tra il
ricordo della vita già vissuta e il progetto sfumato della vita che stava osando
progettare.
Si accavallavano i sogni aleatori del futuro appena abbozzato nei contorni
sfumati tracciati dalla fantasia e le emozioni forti della ribellione che aveva
sempre avuto dentro.
Gli attimi che viveva erano già la sua vita e non si curava del vento che gli
sferzava il viso e delle lacrime che fuoriuscivano degli occhi arrossati e che
venivano spinte dal vento fino a solcargli le guance.
L’ultimo litigio con suo padre, lo sguardo di sua madre e la mani di mia nonna
inutilmente artigliate nella sua carne per trattenerlo, attraversavano la sua
mente e i ricordi si fondevano con i sogni e i sogni stanavano altri ricordi.
Fotogrammi di memoria nella mente che duravano il tempo di un battito di ciglia
ma in una sequenza continua, circolare che non trascurava un solo attimo del suo
vissuto.
L’eccitazione cedeva di tanto in tanto alla stanchezza e si appisolava per il
tempo che bastava a rigenerare le risorse che poi spendeva ancora a inseguire
pensieri.
Ripensava a “Canne al Vento” di Grazia Deledda, il romanzo appena letto a
puntate su “Illustrazione italiana” e ripeteva ormai a memoria: “..siamo
proprio come canne al vento. Siamo le canne e la sorte è il vento”, e la sua
sorte Benedetto la percepiva, il suo destino era la strada che aveva scelto di
percorrere a qualsiasi costo.
Giorno dopo giorno la Re D’Italia macinava centinaia di miglia infierendo
all’oceano una ferita spumeggiante. Delfini festosi accompagnavano la nave già
dallo stretto di Gibilterra. Facevano capolino all’improvviso dal profondo dal
mare per poi infilzare le onde eterne e indifferenti ad ogni umano evento.
Il sole sorgeva silenzioso come ogni mattina e si alzava in cielo tracciando un
arco che variava a seconda della latitudine per poi insanguinare a ovest
l’orizzonte tremolante dove c’era l’America ad aspettare.
La notte era una striscia d’argento sulle acque sconosciute e misteriose a fare
la ruffiana con le fantasie di Benedetto.
Giorno dopo giorno l’America s’avvicinava e peggioravano a bordo le condizioni
igieniche: i dormitori s’insudiciavano e venivano spazzati con segatura, l’odore
di disinfettante violentava la brezza mattutina del mare, molti i bimbi
denutriti straziati dalla stanchezza o che piangevano sconsolati.
“Il sogno dell’America vale per ognuna di queste persone tanti sforzi?”
si domandava spesso Benedetto conoscendo la risposta che lui aveva già dato a
questa domanda nelle notti insonni a guardare la luna.
“Ecco, eccola l’America”!
Il ventesimo giorno di navigazione, poco prima del tramonto, ruppe così il
silenzio la voce di una ragazza con gli occhi che avevano il colore del bosco
profondo e lunghi capelli dal colore del mogano. L’America! Sospirarono in tanti e qualcuno non si preoccupò di nascondere
le lacrime. L’ A M E R I C A… Benedetto incrociò lo sguardo della ragazzina e sentì
la vita che scoppiava dentro. Avrebbe voluto avvolgersi tra le mani i suoi
lunghi capelli setosi e stringere a se quella creatura ma si limitò a chiedergli
il nome balbettando.
“Come ti chiami occhi di bosco?”
“Marietta” rispose la ragazza con voce maliziosa sfoderando un sorriso
ruffiano come il tramonto che in quel momento si esibiva all’orizzonte
insanguinando il cielo sconosciuto dell’America.
Benedetto accenno un gesto con la mano per accarezzarle i capelli setosi mentre
lei, accentuando il sorriso galeotto si dileguava lasciandosi dietro il fruscio
leggero della gonna rammendata che penetrò nelle sue viscere e nel cuore come un
dardo improvviso e misterioso.
La nave attraccò a Ellis Island, un isolotto proprio di fronte a Manhattan nella
baia naturale in cui è situato il porto di New York, venerdì 8 agosto 1913 con
la statua della libertà che guardava in altra direzione, indifferente della
sorte e delle emozioni del carico umano che la nave trasportava. L’Isola delle lacrime, come sarebbe stata poi denominata Ellis Island,
dal poeta francese Georges Perec, era la più grande stazione di smistamento
degli immigrati.
Il governo americano usava metodi ferrei e disumani per controllare il flusso
migratorio. Era l’estrazione sociale dei naviganti a fare "la differenza" e
quando le navi entravano nel porto di New York, i passeggeri di prima e seconda
classe venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali
dell'immigrazione. I passeggeri di terza classe invece subivano le peggiori
umiliazioni.
Si eseguivano meticolosi controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati.
I medici accertavano soprattutto "le malattie ripugnanti e contagiose" e
le malattie mentali. Gli ammalati o i "sospetti" tali venivano marcati sulla
schiena con una croce bianca segnata con il gesso, confinati sull'isola per la
quarantena oppure reimbarcati. I capitani delle navi avevano l'obbligo di
riportarli nel porto del paese d'origine.
La marea umana che arrivava col sogno dell’America si stabiliva essenzialmente a
New York. “Little Italy” venne chiamato il quartiere abitato dagli
italiani; braccia a buon mercato per il capitalismo senza anima, buone per
scavare tunnel o costruire grattacieli.
E non mancarono neppure gli italiani appena arrivati che si trovarono alla mercè
di connazionali senza scrupoli che lucravano sulla pelle dei loro fratelli
truffandoli o vendendoli a imprese edili che li sottopagava per lavori
massacranti.
Nella Little Italy l'oltre mezzo milione di italiani si insediò in quegli anni
nei decrepiti edifici di legno abbandonati a ridosso del ponte di Brooklyn.
Assoluta la mancanza di regole che fece la fortuna dei padroni delle case
trasformando il quartiere in un formicaio pregno di miseria, delinquenza,
ignoranza e sporcizia.
Il capitalismo dominava incontrastato sostenuto da un sistema giuridico
compiacente. “Darwinismo sociale” era chiamato il principio al quale si
richiamava il capitalismo e i suoi sostenitori affermavano che qualsiasi
tentativo di regolamentare gli affari avrebbe impedito l’evoluzione naturale
delle specie.
Era questa l’America che si offriva agli immigrati rilasciati dai lager
dell’Isola delle lacrime dove venivano internati prima di ricevere il permesso
ufficiale d'ingresso nel Paese.
Era gente dimenticata dall’Italia che però si rallegrava per l'attivo della
bilancia dei pagamenti favorito dalla politica "dell'esportazione delle
braccia". Era gente snobbata dai diplomatici che si vergognavano di
rappresentare la miseria. Era gente che non faceva notizia neppure quando,
essendogli stato negato il permesso per entrare nel Paese, si gettava nelle
acque per raggiungere a nuoto New York e spesso così incontrava la morte.
“Quel che io sono venuto ad interrogare qui è l’erranza, la dispersione, la
diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso dell’esilio, vale a dire il
luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte; è in questo
senso che queste immagini mi riguardano, mi affascinano, mi implicano, come se
la ricerca della mia identità passasse dall’approvazione di questo luogo di
scarica…” (Georges Perec)
Benedetto l’intravide tra la folla esausta che si confondeva tra i miseri
bagagli e la raggiunge col cuore in gola e lo strano sfarfallio nella pancia.
“Ehi Marietta”, e questa volta le strinse la mano gelida e tremante – “Ma
la tua famiglia dove è diretta?”
“A Dallas” disse la fanciulla. “Mio padre preferisce trovar lavoro
nelle miniere di ferro o carbone del Texas…Sai che chi lavora in miniera
potrebbe guadagnare fino a cinque dollari al giorno?”
“Già, ma si può anche morire…”, pensò Benedetto stringendogli la mano un
po’ più forte.
“Io mi fermo qui per il tempo necessario ma giurò che ti raggiungerò a Dallas
prima che finisca l’anno” promise Benedetto sfiorando le sue labbra con un
timido bacio.
Benedetto, come tutti, passò sotto le forche caudine dei controlli. Un
funzionario sgarbato lo sottoponeva a una serie di domande compilando la riga
numero ventotto del centoventicinquesimo foglio del “List or manifest of
alien passengers for the United States Immigration at porto of arrival”.
- Cognome: Gorgoni
- Nome: Benedetto
- Anni: ventidue
- Occupazione: farm laborer (lavoratore di campagna alle dipendenze)
- E’ capace di leggere e scrivere: si
- Nazionalità: Italiana
- Razza: Italia sud
- Ultima residenza stabile: Tuglie
- Nome e indirizzo completo del parente o amico più vicino nel paese da cui lo
straniero proviene: Pezzullo Salvatore – Av. 797
- Esatto ammontare della somma posseduta: nessuna
- E’ un poligamo: No
- E’ anarchico: No
- E’ noto per aver compiuto atti immorali: No
- Condizioni di salute mentale e fisica: buona
- Malformazioni: natura, durata causa: Nessuna
- Stato e luogo di nascita: Palmariggi - Italia
Soffiavano ormai forte i venti di guerra quando Benedetto onorò la promessa
fatta a Marietta raggiungendola a Dallas.
Lei lo aspettava e mescolarono i loro sorrisi, fusero insieme le loro speranze e
incollarono i loro sogni uno su l’altro per dargli uno spessore più consistente
e in grado di resistere agli eventi terribili che stavano per accadere nel
mondo.
Gli anni passarono uno dopo l’altro segnati dai figli che nascevano. Benedetto e
Marietta facevano il resoconto della loro vita sintetizzandola nelle parole che
una lettera può contenere e lo affidavano al lento via vai delle comunicazioni
del tempo.
Soffiavano ormai forte i venti di guerra quando Benedetto onorò la promessa
fatta a Marietta raggiungendola a Dallas.
Lei lo aspettava e mescolarono i loro sorrisi, fusero insieme le loro speranze e
incollarono i loro sogni uno su l’altro per dargli uno spessore più consistente
e in grado di resistere agli eventi terribili che stavano per accadere nel
mondo.
Gli anni passarono uno dopo l’altro segnati dai figli che nascevano. Benedetto e
Marietta facevano il resoconto della loro vita sintetizzandola nelle parole che
una lettera può contenere e lo affidavano al lento via vai delle comunicazioni
del tempo.
“Ha scritto Benedetto” diceva mia nonna a suo Padre che anno dopo anno
invecchiava con il rimorso e la nostalgia che s’addensava nel petto.
Quasi alla fine del secondo confitto mondiale arrivò la notizia che Benedetto
era morto senza che ne fosse precisato il motivo: era il 1944.
Mia nonna fece in modo che i suoi genitori non sapessero della morte di
Benedetto e continuava a inventare qualcosa da raccontare per non addolorarli.
Il mio bisnonno cominciò a non star bene e un giorno d’autunno dello stesso
anno, quando ormai era allettato da qualche settimana chiamo mia nonna al suo
capezzale: “Lucia, è tornato Benedetto” le disse con una voce flebile che
finalmente lasciava trasparire umana fragilità.
Mia nonna ebbe un sussulto. “Come fai a saperlo?” rispose con la voce
tremante.
“E’ venuto a trovarmi e a dirmi che è tornato per stare con me per sempre”.
Sorrise e chiuse gli occhi.
Due lacrime scivolavano sul cuscino velocemente, strinse la mano che Benedetto
porgeva e il cuore si fermo nel petto per sempre.
* /corpo */>
Tuglie...per raccontar paese...
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