Dal racconto del nonno, raccontatogli da suo nonno, e a costui raccontatogli
dal suo…
Correva l’anno 17..(forse ’50 o ’53), quando Don Vito De Santis, arciprete
di Tuglie, appressandosi la festa Patronale, e volendo cominciare a fare le
cose in grande, come allora si conveniva ad ogni paese circonvicino di
rispetto, ordinò ad un maestro cartapestaio leccese forse a Mauro Manieri o
comunque a qualcuno del suo entourage – una pregevole statua che
raffigurasse il momento del fiat. L’opera, quella che tutti conosciamo, fu
realizzata con magistrale perizia e secondo i canoni del barocco veneziano,
tant’è che nella gamma dell’arte statuaria salentina (“a macìnula” per le
statue vestite, “te cròssu” per quelle intagliate in legno, “te cartapìsta”
per quelle solo in cartapesta, “te cartapìsta e tela ‘ntisàta” cartapesta e
tela indurita con colla animale), veniva indicata come “alla veneziana”
soprattutto con riguardo ai decori del panneggio, dorati e arabescati con
elementi fitomorfi .
Una volta completata l’opera, il maestro mandò a dire al parroco di
assoldare un gruppo di vastàsi (uomini addestrati alla pesante fatica
fisica), per prelevare la statua da Lecce e trasportarla fino a Tuglie. La
fantasia ci fa immaginare il Reverendo che, in lunga zimarra e ampia cappa
corvina, si sia recato al Capoluogo a cavallo, o forse in una più comoda
carrozza condotta da un vetturino, scortato da almeno una dozzina di robusti
ed agili campagnoli tugliesi.
Lì giunto, abbia estratto lo spagnoleggiante bolsillo con tot ducati
d’argento per saldare l’artista e, dopo aver ricevuto da questi, tutto
contento per la tasca appesantita dai tintinnanti e luccicanti ducatoni (ho
frequentato bottega e ne conosco bene l’ambiente), tutte le raccomandazioni
per una buona conservazione del capolavoro e dei relativi colori e decori,
abbia ripreso la lunga ed accidentata strada del ritorno, sfidando anche le
insidie dei “tre ponti”, nei pressi di Collemeto e Santa Barbara, tanto
l’immagine sacra teneva lontani i briganti e i grassatori.
Immaginiamo lui a cavallo, o comodamente in carrozza, e i poveri vastàsi “a
cavàl di san Francesco”, con andatura niente affatto confortevole per lo
sbilanciamento strutturale, sfiancando sotto la gravante ma variopinta, e
con sembianze di giovane sposa, statua della Patrona. Di tanto in tanto
cambiavano i turni e le postazioni e – raccontava riverentemente mio nonno –
qualcuno, sfinito per la fatica e forse anche un po’… “rotto”, sia
irriverentemente esploso in “càpu te callu (davvero così?), quantu pisa ‘stu
toccu te pupu”. Eh si, trattavasi ancora di un “pupo”, non avendo ancora
ricevuto l’investitura ufficiale della benedizione.
• (nel
1753 l’Arciprete De Santis, per una malattia a noi ignota, stette sul
punto di morire, tanto che fece testamento – cfr. O. Seclì, Tuglie, la
storia, le storie,Parabita. Ed Il Laboratorio, 2007 - nel quale
destinava gran parte dei suoi averi alla Parrocchia. Fu miracolosamente
guarito per interessamento della Madonna Annunziata e come ex voto fece
comporre a sue spese – cfr Visite Pastorali di fine Settecento - la
statua barocca “alla veneziana” da maestranze leccesi riferibili a Mauro
Manieri).
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