Nel periodo trascorso nel Collegio medico, Ria ebbe modo di
partecipare alle aspirazioni all'unità italiana, come ricordava un
testimone a lui vicino: "Studente nel Collegio medico sentiste il
fuoco della libertà che pervase tutte le menti nei tempi in cui
l'unità italiana si sospirava ed insieme con altri valenti
convittori foste rinchiuso in carcere". Si capisce da questo che tra
gli amici del Ria ci sarebbe stato in seguito un personaggio come il
gallipolino Emanuele Barba.
A Napoli, conseguita la laurea in medicina, Ria riuscì a farsi
notare per il proprio ingegno; e attraverso concorsi vinti
brillantemente egli si sarebbe assicurata una solida fama. A trent'anni,
nel 1869-70, era Medico Assistente del prof. Cardarelli
nell'ospedale Gesù Maria; sarebbe diventato, in seguito, Professore
pareggiato di Farmacologia e di Clinica Medica nella Regia
Università di Napoli, Docente libero di Terapia Clinica, Medico
Ordinario nell'Ospedale Incurabili. Fu socio onorario della Regia
Accademia medico-chirurgica di Napoli.
Il successo non gli fece mai perdere quell'equilibrio e quella
disponibilità verso colleghi e discepoli che furono una
caratteristica rilevante del suo insegnamento. Dirigeva una rivista
medica,
Gl'Incurabili, in cui oltre a stampare i propri studi accoglieva
quelli dei suoi allievi più promettenti.
La sua vita familiare (aveva sposato Giulia De Filippis) fu turbata
dalla morte di due dei suoi figli, ch'egli ricordava nella dedica a
stampa del volume La Idroterapia del Medico ("… miei due cari
figliuoli / Elisa e Franchino / crudelmente rapiti alla dolcezza dei
paterni amplessi").
Come in tanti medici-scienziati del medio e secondo Ottocento, anche
in Ria emerge una forte componente pedagogica. Egli ha l'orgoglio
della sua scuola, ma sa che quell'orgoglio dev'essere costruito su
un lavoro assiduo, su un progresso costante delle conoscenze. Non
basta essere 'tecnici' in una disciplina: occorre essere soprattutto
'maestri'. L'insegnamento è un apostolato, l'istruzione è
educazione: "… un insegnamento qualsiasi debb'essere sempre un
apostolato, e se così non è, esso precipita dal suo elevato
ambiente, si confonde col mestiere e la scuola perde la nobiltà
della sua missione. La scuola è sempre, nel mio modo d'intenderla,
istruzione ed educazione. Se nella scuola di coltura generica si dee
istruire la mente del giovanetto ed educare il suo cuore, anche
negli studi superiori s'istruisce la mente e si educa il cuore del
giovane, quando gli si dimostra la bontà della disciplina, alla
quale egli dedica la sua attività scientifica; quando gli si palesa
il modo migliore d'insegnarla e quando gli si dice il modo più
corretto di esercitarla".
L'insegnamento impartito nelle aule universitarie, Ria lo raccoglie
pubblicando le proprie lezioni. La sua prosa scientifica inclina
talvolta al gusto della citazione letteraria (Ria è lettore degli
autori del suo tempo e ha un solido bagaglio di cultura
classico-umanistica), e questo in conformità al profilo del medico
umanista rimasto vivo a lungo nella tradizione meridionale,
Rivendicava, contro coloro che vedevano negli studiosi stranieri i
precursori di ogni progresso scientifico, anticipazioni e risultati
di studiosi italiani, e guardava ad esempi della scuola napoletana.
All'occorrenza, con legittimo orgoglio ricordava anche il proprio
lavoro: "… mi sono dato opera da un decennio a questa via (1869) di
fondare lo studio della Terapia clinica, cioè, di studiare con una
storia critica sull'infermo di un dato morbo i vari metodi proposti
per questo, e seguire l'infermo sino alla guarigione o sino al
tavolo anatomico"; e, ancora: "Ne cominciai lo studio sin dal 1869
sul Gesummaria ov'era Medico assistente del Prof. Cardarelli; e nel
1875 pubblicai il Saggio di Terapia speciale, che è stato
nella letteratura medica italiana il primo tentativo di un'opera in
questo genere. Vedo con soddisfazione che questo studio ora viene
pure imitato da altri".
Lo ricorderà ancora più tardi, quando rievocherà le tappe salienti
della propria carriera: "Sino dal 1868 io colla veste d'insegnante
privato (secondo che intendevasi allora il glorioso insegnamento
privato napoletano) cominciai a dettare Farmacologia per diletto
anziché per lo scopo di una carriera scientifica in siffatta
disciplina. Era invece ed è oggetto dei miei studi la Clinica, che
dall'anno scolastico 1870 sostengo con ogni lavoro e predilezione.
In quei tempi fui il solo ed il primo insegnante privato di
Farmacologia, né seppi mai che altri prima di me avesse esercitato
da privato un tale insegnamento. Venuta la legge del 30 maggio 1875
sulla libera Docenza, fui il primo ad ottenerla per titoli in questa
disciplina (come pure ebbi quella della Clinica medica) e continuai
a possedere una scuola, che fu sempre numerosissima per benevolenza
dei Giovani verso di me anziché per merito mio verso di loro.
Nell'83 mi accomiatai da quello insegnamento di Farmacologia, che
pur m'aveva dato lavoro ed onore per dedicarmi tutto a quello della
Clinica".
Partecipava ai Congressi scientifici e ne scriveva "sotto l'impeto
delle provate impressioni" per farne una disamina critica, ma
cogliendo -anche - certi aspetti legati ai contrasti dell'ambiente
scientifico. Pungente, sotto questa angolatura, è il resoconto sul
Congresso di medicina tenuto in Roma nel 1883.
Poiché gli stava a cuore un insegnamento rigorosamente fondato,
insorgeva contro gli esami (la "commedia degli esami"!) che, a parer
suo, non garantivano a sufficienza né l'esaminando né l'esaminatore
né la scuola stessa.
Attento e vivace, Ria porta un contributo rilevante al progresso
della scienza (con anticipatrici tecniche terapeutiche nella cura
del tifo) e al progresso della società. Quello della scienza non può
essere un mondo separato dalla vita reale e lo scienziato non
dimentica mai d'essere anche un 'cittadino'. Non meraviglia perciò
che il suo distinguere, sul piano professionale, scienza da
ciarlataneria e, sul piano politico-sociale, il suo muovere dure
critiche alle istituzioni pubbliche quando queste appaiano
dimentiche del proprio compito.
Nel campo degli studi medici il Ria elogia un moderato empirismo, ha
fede nell'evoluzionismo, respinge dalla diagnosi di una malattia ciò
che non scaturisca dalla conoscenza profonda della situazione del
malato e sia invece frutto di un sopravvivente dogmatismo. La
scienza, egli credeva fermamente, non è oracolarità: lo stesso
eventuale errore diagnostico diventava fonte di esperienza.
Nel 1907 l'Associazione dei Liberi Docenti della Regia Università e
degli Istituti Superiori volle festeggiare Ria, che ne era il
Presidente. All'omaggio parteciparono colleghi ed ex-allievi, le cui
testimonianze sono il più bell'elogio del metodo del Maestro e della
validità del suo insegnamento.
Circondato dall'affetto di familiari e discepoli anche dopo il
ritiro dall'insegnamento, Giuseppe Ria moriva, nella sua casa
napoletana sita al n. 61 di Via Duomo, il 23 novembre 1926. Vasta la
sua bibliografia, di cui si ricordano qui solo alcuni titoli per
esempio: Lettere storico-cliniche del colera nella Sezione
Vicaria dirette al Cav. Giuseppe Biondi professore in Medicina dal
Dott. Giuseppe Ria, Napoli, Stamperia dell'Industria, 1866 (ora
in nuova edizione a cura e con una nota introduttiva di Luigi
Scorrano, Manduria, Barbieri, 1997); La Idroterapia del medico
moderno studiata secondo la fisiologia e la Clinica, Napoli,
Stabilimento Tipografico dell'Ancora, 1874; Storie cliniche,
Napoli, Stabilimento Tipografico dell'Ancora, 1880; Studi di
Clinica Medica e Terapia Clinica (dodici volumi tra il 1886 e il
1910). Le affettuose testimonianze di colleghi ed allievi si possono
leggere in
Premio Ria. Album, Napoli, Stabilimento Tipografico M. D'Auria,
s. a. (ma 1911).
Luigi Scorrano |