L’ultimo giorno di scuola coincideva sempre con l’inizio dell’estate. Non che
non fosse già piena estate alla metà del mese di giugno nel mio Salento, ma
l’ultimo giorno di scuola esplodeva nel cuore, sfarfallava nella pancia e la
voglia di volare diventava incontenibile.
Mio padre studiava, con imperdonabile anticipo, come impiegare il mio tempo
libero senza peraltro brillare in originalità.
Ogni anno una variante impercettibile dell’identico adempimento e ogni
adempimento aveva il potere frustrante di tapparmi le ali.
Mi assegnava un’area di “cozzi” in campagna dai quali estirpare l’erbaccia e un
tempo massimo per eseguire l’operazione che coincideva con il periodo delle
vacanze estive.
Si trattava di qualche decina di metri quadrati ma a me sembra un’area grande
come l’Europa.
Non riuscivo a comprendere la ragione per la quale dovessi impiegare il tempo
che mi sarebbe servito per pianificare i miei sogni per bonificare dalle erbacce
inutili buchi sulle rocce disseminate nella terra rossa.
Non osavo contraddirlo, ai miei tempi non era prudente, ma il disappunto che
prendeva forma nelle mie più dissimulate espressioni, innescavano la generosità
paterna che sintetizzava in poche parole una magnanimità che non comprendevo:
“Il lavoro che farai consentirà di raccogliere comodamente le olive il prossimo
inverno e poi, non dimenticare che tutto questo un giorno sarà tuo”:
“Mio? Ma a me non interessa avere un campo grande quanto l’Europa pieno di
“cozzi” pensavo stizzito. I miei progetti erano altri e, neanche uno contemplava
l’attività “ammazza sogni” che mio Padre pianificava per me.
La mia prospettiva era alterata da un macroscopico errore di parallasse e le
distese “infinite” di cozzi che si perdevano all’orizzonte invalicabile della
mia voglia di adoperarmi in quelle attività, era in realtà circoscritto da una
decina di ulivi che mio padre amava come fossero figli.
Volente o nolente, con i buoni uffici di mia madre, aprivo il cantiere.
Mio padre cercava di impormi il suo diagramma di Gantt: “Oggi devi arrivare alla
“cascia”, domani all’”oialura”” ma questo diktat proprio non riuscivo ad
accettarlo.
“Ti consegno il lavoro finito solo se non mi stai alle calcagna” e, alla fine,
sembrava un compromesso accettabile a entrambi.
Gestirmi il “cantiere” in fondo mi consentiva di spaziare liberamente.
Partivo al mattino in bicicletta con nella mente mille scenari fantastici.
Superate le prime salite del paese già il mare ruffiano all’orizzonte mi faceva
l’occhiolino. Brillava come argento con le carezze del sole d’estate e la brezza
mattutina aveva il sapore della salsedine, della terra, dell’erba appena
tagliata.
Ai bordi delle strade sterrate gli sterpi acuminati mi sembravano antenne che
potenziavano i raggi del sole.
Scansavo le frasche debordanti di un fico le cui foglie rubavano il sole e lo
restituivano sotto forma di intenso profumo che orticava l’anima e cercavo di
mantenere l’equilibrio nei solchi stretti e profondi della strada sterrata.
Il passaggio della bicicletta turbava la quiete apparente: il fruscio di un
serpentello che cercava riparo o una lucertola che saettava negli anfratti
numerosi di un muretto a secco.
Il mio pedalare faceva volteggiare, in una danza sinuosa delicati petali
vermigli di papaveri dissennati che osavano sfidare la sorte, eleggendo
domicilio in posti impensati.
Iniziavo con calma il lavoro di bonifica. Pochi strumenti rudimentali per
un’opera titanica; pochi “cozzi” puliti ma a regola d’arte.
Ho sempre fatto le cose per bene, anche quando non ho amato le cose che ho fatto
e non ho mai trascurato i dettagli.
Mi sentivo una specie di Attila contro le erbacce: dove intervenivo con i miei
strumenti rudimentali non cresceva più l’erba. Intervenivo solo su pochi
centimetri quadrati. “Picca e bonu” dicevo a mio padre per ridimensionare le sue
velleità imprenditoriali.
Dopo un po’ c’era sempre qualche lucertola che faceva capolino per distogliermi
dal lavoro con quel loro fare provocatorio.
Appariva dal nulla e si fermava a pochi passi da me imponente nella sua
arcaicità. Questo dinosauro formato bonsai mi sfidava a catturalo ed io
raccoglievo la sfida con sistematica puntualità.
Accadeva anche che passassi giornate in apprezzata e liberatoria autonomia e
diventavo io stesso strumento al servizio della fantasia.
I campi di grano diventavano infinite praterie dove l’immaginazione galoppava
libera e incontrastata.
Sentivo la terra ronzare e ogni confine si spostava dove la mente lo collocava.
Gli spazi potevano essere immensi se alzavo la testa al di sopra dell’ondeggiare
del mare giallo che mi inghiottiva o essere semplicemente circoscritti dalle
prime spighe sulle quali si posava lo sguardo.
Rotolarmi nei campi di grano era come cavalcare le nuvole e correre a inseguire
i fantasmi dei miei eroi immaginari non mi faceva sentire il dolore delle
ginocchia sbucciate.
Anche adesso che il mio ciclo vitale conta quasi sessant’anni, mi capita di
chiudere gli occhi e correre nei campi di grano con la mente piena di sogni,
incurante delle ginocchia sbucciate e dei petali ardenti dei papaveri
spiaccicati sui vestiti…e mio padre che ancora mi chiede: “si rivatu all’oialura?”.
“Quasi”, rispondo, “sono quasi arrivato ”
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Tuglie...per raccontar paese...
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