Non
c’è luogo d’Italia in cui non sorga un monumento, grande o piccolo,
brutto o bello o, almeno, passabile che ricordi i caduti delle due
guerre mondiali. Della prima in particolare, quella che per la sua
immanità fu detta “la grande guerra” quando non s’immaginava il
peggio che sarebbe venuto poi. Commissionati ad artisti illustri o a
mestieranti della scultura, i monumenti hanno tutti una loro storia
che sarebbe interessante ricostruire: per alcuni questo lavoro è
stato fatto e per un riferimento d’area (della nostra area voglio
dire) basterà ricordare il bel lavoro, documentatissimo, di Luigi
Marrella (L. MARRELLA, I percorsi della Vittoria. Casarano, uno
scultore, un monumento, Barbieri, Manduria, 1997).
A volte il monumento è un semplice cippo recante un’iscrizione, a
volte l’iscrizione completa ciò che il monumento, per mezzo di altri
elementi (statue, simboli vari) intende significare. Con le
iscrizioni bisogna procedere avvedutamente, affinché l’entusiasmo
non detti una sorta di istigazione a qualche azione poco
commendevole. Tristano Bolelli, che tenne cattedra di Storia della
lingua italiana, ha narrato in proposito, in un suo libro (T.
BOLELLI, Parole in piazza, Longanesi & C., Milano, 1984, p. 77), un
gustoso aneddoto: «A Calci, vicino a Pisa, figurò (non so se sia
stata modificata) la breve ma significativa scritta sul monumento ai
soldati vittime della Guerra 1915-1918: “CALCI AI CADUTI”».
I monumenti vengono interpretati nelle loro figure: talvolta
l’immagine è quella di un soldato ferito a morte che si accascia al
suolo, sorretto da una figura simbolica (la patria); talvolta il
senso del manufatto celebrativo è riassunto nella presenza di figure
muliebri rappresentanti preferibilmente la Vittoria o l’Italia. Non
sembra che vi siano molte deroghe a questa sorta di rappresentazioni
obbligate.
Anche Tuglie ha il suo monumento ai Caduti, opera di un insigne
scultore ruffanese operante tra la fine dell’Ottocento e il primo
trentennio del Novecento, Antonio Bortone (1884 – 1938), autore di
altri monumenti di identico tema, affini anche nell’impianto
architettonico: quelli di Ruffano (1924) e di Calimera (1927). A
proposito di quello di Tuglie, Ilderosa Laudisa osservava: «In
quello di Tuglie [monumento] ripropose in modo quasi perfettamente
identico la figura allegorica del monumento al Capponi; ciò fa
ritenere che dovette prendere il calco, che portò con sé a Lecce»
(I. LAUDISA, L’opera di Antonio Bortone, in Pro Loco Ruffano [a c.
di], Antonio Bortone (Ruffano 1844 – Lecce 1938), Conte, Lecce,
1988, p. 29). L’ipotesi della studiosa è che il modello della figura
di donna, utilizzato a Firenze per la statua al marchese Gino
Capponi, fosse stato riutilizzato per la figura muliebre del
monumento tugliese. Per pronunciata che possa esserne la
somiglianza, un elemento differenziante non poteva non costituire un
tratto importante sia per l’individuazione della figura sia per
l’interpretazione di essa.
Infatti: chi è la donna del monumento ai Caduti di Tuglie?
A un’osservazione veloce, e un po’ distratta, dato l’argomento, la
donna che depone la corona d’alloro su un ripiano marmoreo della
costruzione fa pensare all’Italia (personificata) che rende omaggio
ai suoi figli tugliesi caduti per difenderla. La solennità della
posa, la serenità che emana dalla figura composta (sia pure secondo
collaudati canoni accademici), il gesto lento e faticoso con il
quale la corona viene deposta porta quasi spontaneamente ad
individuare nella donna un’immagine della patria.
Ma si osservi meglio un particolare decisivo: la corona che cinge la
testa della donna e ciò che in essa vi è raffigurato. I particolari
hanno la loro importanza, e non vanno trascurati. Se l’immagine
fosse quella dell’Italia, avremmo una corona turrita, come nelle
convenzionali rappresentazioni che conosciamo. Questo manca. La
corona ha l’aria d’un manufatto semplice ed elegante: non una corona
di torri che dica dominio e forza, ma una semplice corona quale si
addice all’immagine solenne della persona allegorica rappresentata.
Il
particolare decisivo occorre andarlo a cercare nella decorazione che
si trova nella parte centrale della corona (foto di Felice Campa).
Al centro della faccia della corona non c’è, ad esempio, lo stemma
sabaudo come ci si aspetterebbe in una statua raffigurante l’Italia
(l’Italia ancora guidata dai Savoia). C’è, invece, lo stemma civico
di Tuglie: immagine riconoscibilissima che si può riscontrare con
quella che orna la torre civica o, più recente, quella che troneggia
in una stanza del Comune.
Non si può mettere in dubbio che ciò che è rappresentato nella
corona della donna è lo stemma civico di Tuglie. Questo nega la
possibilità di individuare con l’Italia la figura femminile del
monumento.
Chi è, dunque, questa donna?
La risposta è semplice e non può che essere quella: è l’allegoria
del paese o, meglio, della comunità tugliese che rende un doloroso,
benché composto, omaggio ai suoi cittadini caduti sui campi di
battaglia. Che cosa indusse Antonio Bortone a riprodurre nella
corona della donna lo stemma del paese al quale era destinato il
monumento? Fu un’intuizione dell’artista o un suggerimento della
committenza? Come che siano andate le cose, la soluzione data
dall’artista al suo lavoro appare originale e ricca di significato.
Era l’umile comunità locale, benché travestita dall’artista in vesti
e panneggi classicheggianti, a presentarsi – per così dire –
all’altare (i teatri di guerra) dove si era consumato il sacrificio
di tante giovani vite. Nell’atteggiamento della donna c’è un
composto dolore, una rassegnata presa d’atto di quelli che sono i
risultati dei conflitti. Una rassegnazione sottolineata dal gesto
molle e stanco col quale la corona d’alloro viene deposta sul
monumento. Non ci sono i trionfalismi così ovvii in tanti altri
monumenti. Per la sua Ruffano l’artista aveva scolpito una Vittoria
alata, una figura che sembrava additare una ricchezza d’avvenire. I
due monumenti, quello di Tuglie e quello di Ruffano, sono dello
stesso anno (1924). Anche questa coincidenza può essere letta al di
là d’un fatto casuale. Nello stesso anno l’artista proponeva a due
comunità cittadine lo stesso tema (l’omaggio ai Caduti) declinandolo
in modalità opposte, ma entrambe vere e necessarie: la compostezza
del dolore come invito, sì, a non dimenticare ma anche come
suggerimento a porre fine ai lutti delle nazioni e delle patrie
(fosse, quello deposto, l’alloro ultimo!) ma anche a guardare
fiduciosamente al futuro come guardava l’alata fanciulla del
monumento di Ruffano, la Vittoria giovane e balzante che scrutava
fiduciosa l’avvenire.
|