Muddriche
è Il nuovo singolo di Mino che sarà presentato il prossimo 29 giugno a
Alezio.
Dopo "scarcagnizzu" e "caminante", con "muddhriche" Mino fa un salto di
qualità e approda sulle latitudini di una maturata consapevolezza delle
proprie potenzialità.
I testi sono straordinari, la musica curata e, come al solito, non si fanno
sconti.
E così non mancano i personaggi di ordinaria umanità con i ruoli inchiodati
alla coscienza al punto di formare un corpo unico e indistinguibile come il
prete o il radical chic.
Come scriveva Marguerite Yourcenar in memorie di Adriano: "il bene e il male
sono una questione d'abitudine, il temporaneo si prolunga, le cose esterne
penetrano all'interno, e la maschera, a lungo andare, diventa il volto".
Ci sono poi "muddhriche" di memoria raccontate da mio padre nelle storia di
un passato, che appare quasi senza tempo, come "fiche cu le mendule" e c'è
la stessa memoria del passato di Mino in "anni" e "porta verde".
Tra i brani contenuti nel CD, "sotta 'na chianta de chiapparu" merita un
commento particolare. Riproduco le mie impressioni già scritte all'indomani
dell'anteprima della canzone al teatro Paisiello di Lecce il 5 e 6 gennaio
scorso.
Come una carezza appena accennata, un velluto che scivola sulla pelle o
l’innocenza di un un pensiero libero da ogni briglia, questa canzone avvolge
anche il corpo, nota dopo nota, restituendo il sapore agrodolce
dell’essenzialità perduta.
E’ come una foto antica, conservata in uno scrigno che non si è mai aperto,
con le immagini che affiorano da una coltre naturale di emozioni.
Una sorta di effetto flou fatto di tenerezza, di favola, di semplice
disarmante consapevolezza della semplicità dimenticata della vita e delle
pulsioni trasparenti che dovrebbero determinarla.
S’aggrappa all’anima questa storia d’amore sussurrata e si modula su note
complici che danzano a lungo nell’anima di chi l’ascolta.
Ho più volte riascoltato questa canzone, che conoscevo già poiché godo del
privilegio dell’anteprima, e sento che stride con l’aridità di un mondo che
trasforma i sentimenti nelle pagine patinate dei rotocalchi e la bellezza in
tette e culi sodi a pagamento.
E’ così raro vedere librarsi in volo sentimenti veri; emozioni semplici,
così dolcemente declinate in versi e note musicali. Sembrano quasi la
fantastica proiezione di un’umanità improbabile a queste latitudini
miseramente griffate, culo e camicia con il mercimonio e col bisogno di
apparire più che quello di essere.
Un fiore di cappero può valere più di una rosa e lo sfarfallio che produce
nel fondo dell’anima può spazzare via come per incanto lo strato spesso di
insensibilità che si stratifica sul genere umano.
Chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalle onde irresistibili delle
emozioni, forse un po’ naif, ormai è un esercizio raro.
Le quotidiane indifferenze inchiodano l’anima su latitudini glaciali
modulate sullo spread o il rendimento dei titoli di stato. Questa canzone
tuttavia ha il potere di accarezzarti l’anima e far magicamente scomparire i
contorni netti dell’esistenza comune disegnata a (s)misura d’uomo.
Continua a scrivere fratello, continua a cantare la semplicità con
semplicità e a far galoppare velocemente la fantasia sui semplici pensieri,
scompigliata dal forte vento delle pulsioni autentiche.
Non è escluso che gli uomini, prima o poi, non scelgano di sguinzagliare
l’anima per farla lievitare in adeguate dimensione e sorvolare le vaste
praterie del pensiero primitivo di un’umanità dimenticata.
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Giuseppe De Santis
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Terzapagina. Un Salento in "Muddhriche": Mino De Santis emoziona e
commuove
Terzo disco del cantautore, dove tratteggia una terra di vizi e virtù,
contraddizioni e derive. Tra ironia ed accuse feroci ai radical chic e alla
società divisa in ricchi e "pezzenti", il dialetto torna ad essere lingua
"nobile"
TUGLIE - Storie semplici dentro una narrazione di terra ed emozioni, dove si
ritrovano le proprie radici, si guarda il presente con ironia e disincanto
ed aleggia un futuro pieno di contraddizioni. Un Salento malinconico e
genuino, tratteggiato tra i sogni d'anarchia e l'impegno sociale, le memorie
di un'altra epoca, dove la fame attanagliava il quotidiano e dove il "poco"
era lo sguardo sull'essenziale.
"Muddriche", il terzo album in studio (edito per gli Ululati di Lupo) di
Mino De Santis, è un "minestrone" di temi e suggestioni, un grande puzzle,
che ricostruisce un Salento, spoglio di tarante e slogan da cartolina, più
intimista, dove la sua anima viva è quella attraversata dagli ulivi in
rapporto ancestrale con la vocazione contadina e con l'atteggiamento
guardingo nei confronti di un progresso che voglia imporsi, stravolgendo
quell'identità.
Lui, Mino De Santis è un narratore moderno di un territorio, di cui non
nasconde, anzi, sottolinea vizi e virtù, contraddizioni e derive: un po' De
André, un po' Gaber, un po' Paolo Conte. Lo sguardo austero e profondo da "masculazzu"
cela una scrittura, a tratti sublime che il dialetto valorizza
ulteriormente. Perché se c'è un merito indiscusso nell'opera del cantautore
di Tuglie, è l'aver riconsegnato capacità espressiva ad una lingua vista
come "minore", perché bistrattata proprio da chi la utilizza. Il dialetto in
De Santis torna lingua nobile, cesellata nei versi di canzoni che diventano
poesia pura, come accade a brani come "Monti di Mola" o un capolavoro
assoluto (che testimonia come le lingue "altre" siano più universali di
quanto si creda) "Crêuza de mä".
Quanto a "Muddhriche", questo lavoro rappresenta la maturità artistica del
cantautore salentino, capace di disegnare i personaggi caratterizzanti della
vita sociale e religiosa dei paesi come ne il caso de "Lu preute" e "La
pizzoca e la sbergugnata". "Radical chic" è un manifesto dei falsi ideologi
dai comportamenti dissonanti col proprio credo (e già qui lo sguardo
dell'autore si fa più universale ed esce dai confini del solo Salento), che
si concedono a discorsi "colti" sui mali del "capitale" e sulla "miseria",
ma che parlano di "fame" senza averne. Un'accusa feroce a chi ha "poco da
dire" e "tanto da parlar".
L'intimismo di nostalgie e ricordi si evince in "Anni", "Fiche cu le mendule"
e "Porta Verde" tracce di un territorio del passato, che appartiene anche a
chi non lo ha vissuto, dove la povertà era lo scorcio "naturale" da cui
osservare la realtà. E dove le "muddhriche" erano avanzi non solo del pane,
ma anche della vita, emblema della preziosità delle piccole cose, del sudore
e della fatica e della pazienza. Quasi come nell'evangelico richiamo della
donna Cananea che ricorda come "Anche i cagnolini si cibano delle briciole
che cadono dalla tavola dei loro padroni".
Un tempo senza tempo che porta in dote un bagaglio di valori da non
disperdere. Quello delle storie d'amore come "Sutta na chianta de chiapparu",
dove la Pantalea e lu Tore sono i modelli di un corteggiamento d'altra
epoca, dove galeotto non fu il libro, ma le "marangiane" e "nu fiuru de
chiapparu" ha la stessa somiglianza di una rosa.
De Santis torna scanzonato in "Ieu fazzu gezz", gradevole pezzo in levare
che fa molto Sergio Caputo, che sembra l'applicazione del "Radical chic"
alla musica, dove gli spettatori si mostrano interessati alla complicata
esibizione artistica per non passare da ignoranti. "Certi culi" non è
filosofia attribuita al "lato b", ma una riflessione su come la sensualità
di un particolare esteriore del corpo di una donna sia rimando ad una
osservazione più attenta dell'interiore. Del resto, si sono spese lezioni di
bellezza sulla "Venere Callipigia" ("dalle belle natiche").
"Pezzenti" è il brano più forte dell'album (che si avvale della
partecipazione di Nandu Popu e Giovanni "Endesho", figlio di Mino De Santis),
perché fa emergere una visione del mondo, che non è solo "presa d'atto", ma
contestazione "politica" di una società dove la globalizzazione e la grande
finanza spersonalizzano l'umanità. Lavavetri e vu cumprà, i nuovi schiavi
tra padroni e caporali, sottopagati e spacciati per "invasori" sono il
pretesto per raccontare l'evoluzione di un mondo, dove non dividono più
ideologie, culture, religioni o colore della pelle: la discriminante è tutta
nella differenza tra chi gestisce il denaro e chi no, dove il primo ha tutto
l'interesse a fomentare una guerra tra i "pezzenti" (tutte le storie di
ordinaria precarietà), in grado di favorirlo e accrescere la sua "potenza".
L'Arburu te ulie è l'interlocutore del pezzo conclusivo, una invocazione
alla natura e al patrimonio collettivo della terra, fatto di grandi e
piccole narrazioni. È il brano più poetico dell'album, dove quell'albero è
testimone e spettatore di storie e di amori: nella sua presenza c'è
l'eternità di un Salento, che vive dentro le "uci dei tanti prima de mie" e
in una ricchezza immateriale più preziosa di tutto il denaro del mondo. "Fuiazza
dopo fuiazza", muddhrica su muddhrica, commuove ed emoziona. Mentre si
spegne l'ultima nota e risale la consapevolezza che il Salento ha trovato
non solo un cantore, ma un grande autore. Un po' De André, un po' Gaber, un
po' Paolo Conte. O semplicemente Mino De Santis.
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Mauro
Bortone 14 luglio 2013 |
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