1. L’idea di un profilo di Luigi Scorrano dantista è nata, quasi
contemporaneamente, nella testa di Giuseppe Caramuscio (curatore del volume
in onore del suddetto) e nella mia, nel lungo scambio volatile delle lettere
elettroniche cha hanno accompagnato la preparazione di questo Festschrift
dedicato, ahi quanto meritatamente, a Gigi. Quindi, sembrerebbe piuttosto da
invocarsi un certo, vago pentimento, tipico di chi si accorge, a metà del
guado: in che acque mi sono cacciato. Per colpa mia, per giunta! Mi sia di
scusa non solo la vanità narcisistica che caratterizza un po’ tutti gli
studiosi, ma piuttosto l’entusiasmo che ho percepito crescente, rispetto a
questo momento culminante della carriera di Scorrano uomo e studioso.
Culminante, per carità, non finale: ché io ne porto testimonianza grazie
all’eccitante impresa che il Nostro ha appena prodotto: una monografia su
Ludovico Ariosto, fresca di stampa per i tipi romani di Ediesse, che ho
avuto l’enorme fortuna di seguire passo dopo passo, tra scoramenti e
discussioni, tra bozze e copertine e apparati iconografici. Ci sono momenti
di una bellezza sfolgorante, in rapporto intellettuale, seppure sbilanciato,
com’è quello fra maestro e allievo: di questo serberò per sempre memoria.
Come quei momenti in cui l’urgenza di conoscere è come una caccia infernale,
da cui solo la mano e la forza dell’esperienza possono liberarti con fare
materno. Un po’ come Virgilio, quando salva un Dante impaurito dalle zuffe
dei demoni, portandolo sulla spalla nel fossato negli ipocriti in Malebolge:
«Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre ch’al romore è desta / e
vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non
s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia
vesta». Un gesto materno, dunque, urgente: ma la maternità, nel mondo
religioso medievale, è più di una metafora. Indica, invece, le inquiete
strade del governo materiale, ciò che fa ordine e governa: proprio come
Francesco d’Assisi, quando invoca «sora nostra matre terra, la quale ne
sustenta et governa». Maternità, pedagogia e governo civile, si sa, vanno di
pari passo.
Sta qui la mia inadeguatezza: è, per me, defatigante e difficile affrontare
l’opera di Scorrano da una sola angolazione. Assidua, preponderante anche,
se si vuole, ma non tale da esaurire la vena dell’impegno intellettuale
dell’autore, che sappiamo proiettata felicemente su un ventaglio ampio,
ampissimo, non solo di impegno scientifico, ma di impegno tout-court,
totalizzante. Certo la cultura – lo dico senza virgolette – ne è senz’altro
la cifra unificante e caratteristica – ma non in un modo che ne decurta e
diminuisce la politicità, tutt’altro. Nell’uomo Scorrano, la comunità
cittadina è stata il terreno di un intervento continuativo, in cui
letteratura e istituzioni si sono mescolate in una sintesi irripetibile.
Senza tema di smentita, direi che Scorrano è stato, per Tuglie, quello che Brunetto Latini ha costituito per Firenze: « gran filosafo, e … sommo
maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare», come
dice Villani del cosiddetto maestro di Dante. Poco più in là, sempre lo
stesso Villani aggiunge: «Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione
però ch’egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli
scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica
secondo la politica». Non credo di esagerare, quando dico che Scorrano ha
svolto, per Tuglie, un ruolo assai simile al notaio Brunetto per Firenze: ha
proposto e tentato di realizzare, dentro e intorno alle istituzioni, un
progetto pedagogico-politico destinato all’intera cittadinanza, spesso senza
distinzioni di ceto né di colore politico.
Utilizzo l’esempio di Brunetto Latini non solo per la comunanza di
interessi, medievali e fiorentini, che mi lega a Scorrano, ma anche per un
motivo interpretativo, serio per dir così. Brunetto, infatti, che fu attivo
a Firenze con ruoli pubblici nella seconda metà del Duecento, è il miglior
rappresentante di una particolare condizione che si realizzò nell’Italia
comunale del Duecento, un febbricitante laboratorio culturale e sociale dove
il mondo medievale si trovò ad essere profondamente rielaborato e
trasformato, incubando nuovi stimoli che avrebbero condotto a rivoluzioni
come quella dell’Umanesimo e del Rinascimento. Ebbene: nell’Italia di questo
periodo, e in particolare a Firenze, questa condizione si trovò a essere
realizzata in gran parte al di fuori delle cornici istituzionali solitamente
deputate alla circolazione dei saperi superiori (in particolare, la
teologia). Gli intellettuali dell’epoca di Brunetto, nella generazione
precedente a Dante, erano appunto intellettuali pragmatici, impegnati nel
governo del Comune e non nell’insegnamento universitario: era spesso parte
di équipe itineranti, composte da giudici, notai e cavalieri, che univano i
vari spazi cittadini in una rete istituzionale intricata ma felice, perché
intrinsecamente libera dall’apparato di controllo, se non proprio di
cattura, costituito dalla Chiesa. Le Università subivano sempre di più
questo controllo: e infatti, nel 1277, il vescovo di Parigi vietò una
lunghissima serie di tesi filosofiche, discusse soprattutto alle cosiddette
facoltà delle Artes (dove si insegnava, appunto la logica). Il risultato di
questo soffocamento fu una vera e propria diaspora di filosofi innovativi,
che discutevano le tesi di Aristotele sbarcate da (relativamente) poco nel
contesto dell’Europa latina.
In gran parte, questi filosofi pullularono e portarono con loro le loro tesi
e i loro testi, in particolare nell’Italia centrale e settentrionale, dove
l’assenza di un sistema universitario e il vivace contesto politico dei
Comuni consentiva un’inedita libertà di espressione, di mescolamento e di
ibridazione. È quella che gli specialisti di filosofia medievale chiamano la
“filosofia dei laici”, ed è in questo contesto che Brunetto diventa
centrale: perché con la sua opera di traduzione e di disseminazione di
questi nuovi stimoli permise a Firenze di diventare il paesaggio
intellettuale che fu: senza quest’opera di “digrossamento”, come dice
Villani (che – attenzione! – qui gioca anche con i termini della filosofia)
esperito soprattutto sul terreno delle istituzioni e della politica, non
sarebbe stata possibile la Firenze di Dante e Cavalcanti. E forse, diciamolo
pure, l’Europa che conosciamo. Quando diciamo, dunque, che Brunetto fu
“maestro” di Dante, allora bisogna stare attenti, perché parliamo di un
fenomeno non istituzionalizzato: non di “banchi” e “scuole”, ma di gruppi
informali, di discussione e scambio, di cenacoli non rigidi, in cui il
Latini trasmise nuovi testi e nuove domande. Chi conosce Scorrano, avrà
ritrovato uno scenario noto: la capacità di rendere la sua casa un crocevia
di discussione e insegnamento, di proiettare nella città – anche nella sua
attività di Assessore alla Cultura – progetti e domande, che poi, talvolta,
hanno camminato da sole.
Scorrano è un laico del Novecento. Uso “laico” nella sua accezione
medievale, cioè, essenzialmente, illetteratus e non, come abbiamo visto, per
mancanza di letteratura, quanto perché al di fuori delle strutture della
Ecclesia che, in quei tempi, coincideva pressappoco con l’intera civiltà. La
constatazione è tanto più interessante, quando ci si pone di fronte
all’uomo: che aveva tutta la stoffa dell’accademico, ma che - per scelta? -
accademico non fu mai. Un magistero, dunque, integralmente e coerentemente
giocato al di fuori, in un contesto se si vuole periferico ma senza scelte
di minoranza, tutt’altro. Nei suoi saggi, Scorrano è un universitario, un
italianista a tutto tondo: discute coi colleghi, viene abbondantemente
citato ed è conosciuto ben al di fuori dei confini italiani. Non so dire che
cosa ci sia dietro e sotto questa esperienza, così singolare d’altronde nel
Novecento dell’affermazione dell’Università di massa: umiltà o identità
intellettuale di frontiera, Scorrano è davvero un interessantissimo caso di
storia intellettuale dello scorcio del Novecento e dell’inizio del nostro
millennio.
2. Ho toccato velocemente l’elemento dell’identità intellettuale di
frontiera e della sua perifericità, poiché implica un aspetto, che,
finalmente, ci porta al tema che è oggetto di questo articolo: gli studi
danteschi di Scorrano. Essi, infatti, non nascono in maniera isolata, ma si
inseriscono solidamente in una tradizione ben definita seppure accidentata.
Chiamiamola, per comodità, quella del “dantismo salentino”. Per quanto non
ritenga di grande efficacia o penetrazione, soprattutto in ambito
letterario, le etichette regionali, questa mi pare in verità di qualche
utilità proprio perché ha a che fare con una regione che è caratterizzata da
una spiccata perifericità. A prescindere dalle radici storiche della
questione – e anche da quelle linguistiche –, la cultura salentina si
caratterizza in maniera lampante per aver trasformato questa condizione,
materiale, geografica e in parte culturale, in un punto di forza: ne è
esempio, anche, una tradizione di studi che, anche se non incentrata sulla
salentinità del tema, si caratterizza per una certa omogeneità o direi
compattezza di approccio e di piste di ricerca.
Quando parlo di “dantismo salentino”, penso ovviamente alla triade
costituita da Mario Marti, Aldo Vallone e Enzo Esposito. Si tratta di tre
nomi, in realtà, che appartengono alla comunità degli studi danteschi tout
court e nei cui studi dedicati a Dante, sarebbe difficile rintracciare
effettivamente una qualsivoglia traccia di identità regionale; tuttavia,
come detto, c’è un filo comune che evidentemente li accomuna nella diversità
e che ci può essere utile a definire con più esattezza il profilo dello
Scorrano dantista.
Il triumvirato, innanzitutto, lavorò su un terreno quasi inesplorato in
Puglia: fu dello Zingarelli la constatazione, nota anche perché ripetuta
dallo stesso Vallone, di una scarsissima fortuna dello studio del nostro
maggior poeta nella regione: sfortuna, dunque, che durò fino a metà secolo,
e alla quale la fondazione dell’Università salentina ebbe sicuramente a dare
una svolta notevole. Appunto, grazie allo sforzo congiunto e parallelo, dei
tre docenti universitari, che a partire dagli anni ’30-’40 iniziarono a
intervenire robustamente sul tema. Il “dantismo mancato”, secondo la formula
felice di Scorrano, si trasformò, dopo una lunga incubazione durata fino
all’anno fatidico 1965, in dantismo militante, corposo, continuativo e
integrale, con una sua eredità, ormai, davvero notevole e sparsa per le
università meridionali.
Tenendo presente le diverse sensibilità degli studiosi, direi che si possa
vedere, nei loro inizi, un tratto comune alla ricerca del dopoguerra
italiano nel campo degli studi letterari: un tentativo di uscire dalle
secche della critica ideologica, di cui, durante il ventennio si erano visti
gli effetti micidiali soprattutto nella cultura scolastica e di massa. Su
Dante, padre della Patria, questo speciale fardello aveva tra l’altro degli
addentellati di qualche importanza, visto l’ancoraggio della sua lettura
alla rivalutazione che l’Alighieri aveva subito durante il periodo
risorgimentale. Se questo è il quadro generale, le strade percorse dagli
studiosi furono differenti, ma lo strumento fu, tutto sommato, unitario: si
trattava senz’altro dell’approccio al testo dantesco – ma in generale
all’Estetica – fornito da Benedetto Croce. Questo strumento, che, durante il
Fascismo, era stato uno degli antidoti agli eccessi citati, sarebbe poi
stato poi sottoposto a modificazione: nuovi stimoli si affacciavano
nell’ambito della ricerca letteraria. Ma Croce, seppure pian piano scalfito
dall’interno, diede una certa unità e un aspetto peculiare alla cultura
italiana del dopoguerra: la sua filosofia, come ha mostrato lucidamente
Contini, fu una cassetta degli attrezzi utile anche quando la si superava
lentamente, dall’interno, tramite un’erosione che apriva felicemente la
ricerca a impulsi soprattutto d’oltralpe.
Anche Marti, Vallone ed Esposito partecipano a loro modo a questa lenta
erosione, da una parte sdrammatizzando compiutamente l’idea
dell’individualità poetica dantesca, dall’altra aprendo il grandioso
cantiere della posterità di Dante, della sua fortuna attraverso i secoli.
Saranno soprattutto Marti e Vallone a lavorare, con successo, a un
allargamento contestuale che giustifichi e spieghi la poesia dantesca, in
maniera complanare ma parallela (in qualche maniera, direi, alternativa). Lo
svolgimento della pista di ricerca è differente, in altri termini: Vallone
ha profondamente lavorato sullo sfondo ideologico-storico, in cui Dante non
è più individuo di immediata produzione poetica, ma protagonista
particolare, mentre Marti ha disegnato con cura i dintorni culturali, e
specificamente letterari e poetici, all’interno del quale (e in continuo
confronto con esso) si sviluppa la poesia dantesca. In quest’ultimo,
tuttavia, il finalmente robusto approccio filologico risulta mediamente
avulso da qualsivoglia dimensione civile che invece nel Vallone diventa
questione centrale, di spiegazione ma anche di interpretazione. Non nel
senso, tuttavia, di lettura ideologica – richiamerei piuttosto quella che
oggi definiamo Intellectual History – ma piuttosto di una caratteristica che
lo studioso scopre cruciale nell’universo dantesco, ovverosia la continua
tensione fra l’uomo storico e l’ideale. Si tratta, in realtà di felice
trouvaille, già impostata definitivamente nel Dante vallardiano, nei termini
di un conflitto costitutivo tra l’uomo di Dante e il Dante uomo, che avrebbe
trovato il suo più compiuto svolgimento nel Dante medievale.
Sull’altro versante, senz’altro la rimessa in circolo di strumenti
pertinenti anche alla filologia, che come detto sono maneggiati con
competenza soprattutto da Marti, si inseriscono in un contesto di
fuoriuscita dal crocianesimo, visto l’inappellabile condanna che sulle
scienze ausiliarie pendevano per bocca del filosofo; così, anche le ricerche
di bibliografia di Esposito, permettetemi di dire di grande modernità e
ineguagliate – nonostante i mezzi informatici – sono in gran parte il frutto
di un allargamento innovativo. D’altronde, era stato lo stesso Vallone,
completando la bibliografia dantesca della Vita dello Zingarelli –
illustrissimo precedente nella medesima casa Vallardi – ad aprirlo, per poi
svilupparlo nella monumentale Storia della critica dantesca. Si respira
continuamente aria di famiglia tra le schede di Esposito e la Storia valloniana: ciò che però mi interessa sottolineare è, soprattutto, la novità
di un impianto che procedeva a decorticare un mito patrio, storicizzandolo
integralmente. In altri termini: se ragioniamo astrattamente in termini di
sviluppo della mitologia dantesca, e del suo ruolo risorgimentale e
postrisorgimentale, lo stesso gesto di studiarne lo sviluppo ne produceva,
di per sé, una demitizzazione, ne faceva emergere i vuoti, le incongruenze,
i conflitti di mentalità.
3. Essere crociani senza essere crociani: alla svolta del centenario
dantesco del 1965 l’intellettualità salentina rappresentata dai questi tre
giganti si presentava agguerrita e novatrice, in fecondo dialogo, cioè, con
la fuoriuscita dal crocianesimo che anche le altre discipline umanistiche
stavano felicemente esperendo, ma con un portato del tutto peculiare:
filologico, ideologico, radicalmente storicistico. Era dunque un essere
crociani senza essere crociani del tutto alternativo alla linea che si
andava imponendo negli studi danteschi e saldamente in mano, proprio intorno
al centenario dantesco, del filologo romanzo Gianfranco Contini. Il quale,
da par suo, proponeva una strada un po’ differente: una strada nella quale
emergeva una nuova centralità del testo e delle sue strutture, che faceva
ampiamente decadere l’esigenza di parlare del contesto, che veniva confinato
al contorno. Nel paradigma di Contini, tutto in qualche maniera si
raggrumava nel fatto linguistico: l’impegno di Dante è un impegno tutto
linguistico, diceva Contini a una intervistatrice della Radio di Montrèal.
Ciò che permetteva allo studioso di collocare la Commedia al crocevia di
fili letterari che portavano al Novecento (e soprattutto alla linea
sperimentale di Gadda) e all’Europa (dal medievale Roman de la Rose a
Proust, grosso modo).
Per comprendere esattamente il percorso di Scorrano dantista, bisogna tenere
presenti queste due linee contemporaneamente, quella diciamo così (e per
pura comodità, come abbiamo visto) locale e quella invece nazionale. Pur
dotato di una sua peculiarità che si intravede già dalla scelta del tema
della laurea (D’Annunzio: tema complesso e vischioso quanti altri mai negli
anni ’60), il percorso dantesco di Scorrano comincia in maniera
retrospettiva: non dal testo medievale, ma da quello contemporaneo,
novecentesco. Certo: a prima vista, ciò potrebbe sembrare una scelta tutto
sommato in sintonia con l’approccio del maestro alla prospettiva della
fortuna del poeta. Ma in realtà, Scorrano è parte di quegli intellettuali e
studiosi che a malavoglia si impicciano di approcci teorici e storia della
critica: per Scorrano l’elemento principe è il testo, la letteratura.
Ebbene, gli studi danteschi privilegiati nella prima fase di attività del
critico sono poeti e scrittori tra Otto e Novecento – con qualche
sconfinamento rinascimentale e barocco – di cui si interroga il tessuto
stilistico per accedere a uno degli elementi che si rivela cardine nel
laboratorio dello scrittore: la parola e il costrutto dantesco.
4. La presenza verbale di Dante, come recita un titolo di un fortunato libro
che è anche, ormai, solido punto di riferimento nella letteratura critica
del Novecento, è, in altri termini, il modo scorraniano di interrogare la
letteratura novecentesca. Direi una certa letteratura del Novecento, ma non
è qui in argomento la letteratura contemporanea, che lascio senz’altro agli
specialisti. Dico, innanzitutto, che questi studi vanno guardati
innanzitutto come approfondimento della lingua letteraria novecentesca, di
cui viene scrutata, analizzata empiricamente, e sviscerata con intelligenza
una fascia che, direi, si può definire tradizionale e alta. La
constatazione, così come l’idea, non è banale, tutt’altro: se pensiamo a
autori come Dino Campana, oppure come Testori, che proprio in linea
tendenzialmente antiletteraria hanno lavorato e plasmato lingua e stile,
auscultare questa fascia della produzione degli scrittori significa entrare
nel campo della storiografia, proporre linee di genealogia innovative. Così
per Campana la Commedia è una struttura organizzativa della materia esplosa
dei Canti orfici mentre in Testori è una fonte inesauribile di parodia:
criterio, dunque, d’ordine o di rovesciamento, Dante è il punto di confronto
con la tradizione letteraria.
Ora: non è chi non veda, in questo approccio, qualcosa di particolarmente
vicino all’analisi sperimentale, alla scelta tematica e ai risultati
analitici di Contini: anche, direi, nella storicità interna del metodo. Mi
spiego: in Contini non vi è solo un percorso che procede dalla produzione di
critica militante rivolta alla letteratura del Novecento che si alternerà in
maniera sempre più fitta con l’oggetto di studio dell’accademico, e cioè le
scritture medievali; c’è anche un vorticoso progetto che porta il critico a
indagare il testo di alcune esperienze letterarie otto-novecentesche, di
carattere sperimentale, come Faldella e Gadda soprattutto, che lo inducono a
rintracciare la genealogia di una linea letteraria su su fino a Dante, anzi,
come abbiamo visto, Dante come progenitore di questa linea plurilinguista
(opposta alla monotonia selettiva di Petrarca e della sua enorme
filiazione). In Scorrano, il grumo temporale è praticamente identico: da
D’Annunzio a Bevilacqua, così come simile l’attenzione alle pieghe del
vocabolario; ciò che cambia è, tuttavia, lo spettro dell’esperienza. In
Contini, il filologo romanzo, che è studioso delle letterature europee,
proietta la propria analisi sull’ampio raggio delle opere anche al di là dei
confini italici; in Scorrano, non vi è diminuzione e provincialismo,
tutt’altro. C’è un progetto – non so quanto cosciente – di rilettura a tappetto
della letteratura novecentesca sotto la specola di Dante.
Ovviamente, ciò comporta una prima differenza con il filologo: che è il
presupposto di una danteità complessiva della modernità letteraria, e non
parziale e stilisticamente selettiva. Ciò dà ragione, diciamolo onestamente,
a Scorrano ben più che a Contini, le cui categorie di plurilinguismo e pluristilismo risultano, in verità, paradossalmente poco a fuoco: dà ragione
a Scorrano anche l’idea che l’identità della scrittura, fino all’esplosione
della letteratura a cavallo tra anni ’80 e ’90, comprende inevitabilmente,
anche nelle esperienze più anticonformiste, una linea di ancoraggio alla
tradizione. Ché poi, quella tradizione si incarni in Dante è fortuna tutta
italiana, perché colloca la lingua poetica in continuo interscambio con il
linguaggio comune: non dimentichiamo che quasi un quinto del nostro
vocabolario di tutti i giorni è ancora dantesco, come calcolò Tullio De
Mauro. Il che la dice lunga sia sulla letterarietà della nostra costruzione
di identità nazionale, ma anche sull’enorme ventaglio lessicale maneggiato e
trasformato dal nostro maggior poeta.
Significativa la quasi essenza dello sperimentalismo più esibito, di prima
(i futuristi) e di seconda avanguardia (i novissimi): segno di gusti
letterari personali, senz’altro, ma altresì segnali di una linea che si
veniva esaurendo proprio basandosi sul rifiuto della tradizione. Ebbene: la
ultramodernità che viviamo si basa più su queste esperienze che sulla linea
maggioritaria – ripeto: non classicista, ma piuttosto sperimentale non
d’avanguardia – che è l’oggetto di una presenza verbale dantesca che ne
costituisce anche la cifra unitaria.
5. Sintesi non voluta o piuttosto aggiornamento all’air du temps (atmosfera
di cui Scorrano non subisce i dettami, ma, ricordo, contribuisce a
definire), la coincidenza con il percorso continiano la riscontro anche nel
passaggio dal moderno all’antico: nel passare, cioè, dagli autori del
Novecento alla scrittura dantesca. Nella utile bibliografia inserita nel
volume che presentiamo oggi, strumento utilissimo di cui, se mi posso
permettere, rimpiango solo l’assenza di un corretto strumento di
corrispondenza che segnalasse l’inserimento dei saggi nei volumi, ebbene in
questa bibliografia, si nota immediatamente che l’immersione di Scorrano
nella filologia dantesca avviene alla metà degli anni ’80, e coincide con
l’impegno nel commento continuo al poema – poi riprodotto anche in forme più
leggere, antologiche e critiche – steso insieme a Vallone e pubblicato a
Napoli. A partire dall’indomani della pubblicazione del commento, l’impegno
di Scorrano inizia a concentrarsi anche su tematiche più specificamente medievistiche e dantesche, che si realizzano nella forma classica della
lectura, spesso performata alla Casa di Dante romana, o piuttosto della nota
tematica. La raccolta più compiuta, in questo senso, è Tra il Banco e l’alte rote, pubblicato – come a ribadire quell’aria di famiglia di cui parlavo –
dall’editore di origini salentine, Longo, di Ravenna.
Si rivela immediatamente, in questo percorso à rebours, una compatta
solidità e identità di metodo. Con Luzi e con Dante, il metodo è lo stesso:
ascoltare il testo, percepirne le pieghe, sollevarne il velo stilistico e
dare compattezza al caleidoscopio di personaggi. Attenzione: la chiave con
cui si accede a quest’orizzonte di complessità è, di nuovo, la parola. Si
tratta dell’ingrediente principale dell’artefice Dante, la sua peculiare
modalità di organizzare il risentito viaggio nell’al di là, dai peccati
infernali alla felicità paradisiaca. Si possono invocare diverse genealogie,
per questo tipo di attitudine, e si farebbero nomi interessanti, e non
invano. Non so quanto Scorrano apprezzi, e desideri, un incasellamento in
alberi genealogici di tipo ermeneutico. Certamente, lo strutturalismo, nella
variante italiana, laddove si sposò con la migliore tradizione filologica,
hanno fornito il principale momento di riavvicinamento al testo nella sua
cruda materialità di costruzione verbale. La traduzione italiana di De
Saussure, come la filiazione nazionale del formalismo russo (che si sarebbe
chiamata intertestualità) contribuiscono a collocare Scorrano in un quadro
più ampio, di grande sintonia con il proprio tempo: si tratta di concreta e
definitiva espulsione degli ultimi rimasugli di crocianesimo?
A me piace, piuttosto, riferirmi di nuovo a una concreta individualità della
ricerca di Scorrano, che ha fatto emergere il metodo dalla lettura, con una
certa distanza da incrostazioni filologiche e storico-semantiche. Si
cercherà invano, nelle pagine scorraniana, tracce della storia delle parole
così come praticate da uno Spitzer e da Curtius: qui si tocca un punto
radicalmente di distanza rispetto alla presa che la filologia continiana
possiede sugli studi danteschi fino agli anni ’80. La parola è per Scorrano
individuata come atto di invenzione individuale: si incornicia nella
letteratura come fatto linguistico e retorico, e tutti e due questi fatti
sono attentamente spogliati dallo scrutinio del critico, ma resta un
elemento non solo e non tanto di uso quanto di irripetibile battesimo. C’è
qui un tratto di linguistica in parte evaporata nell’estetica che è,
oggettivamente, risalente alla tradizione romantica (su su probabilmente
fino a Vico); non sono assolutamente d’accordo, sia chiaro, ma il rischio di
un’analisi frammentaria è smentita da una pratica di ricollocazione continua
di quell’evento che rischierebbe di essere isolato. Il fatto più
straordinario, e forse più affascinante, di quest’approccio, è proprio
spogliare Dante – soprattutto la scrittura della Commedia – dell’aspetto
cosale, reale, storico nel suo aspetto più grezzo.
Scorrano ha costruito, nella prassi, un’ipotesi sperimentale di continuità
tra il medioevo di Dante e la modernità letteraria basata, appunto, sulla
continuità di questo atto di invenzione. Si tratta, se si vuole, di un
paradigma ottimistico, che ribatte alla tragedia che invece, proprio a
cavallo degli anni di cui parliamo, segnalavano i filosofi francesi nel
cuore della modernità. Basta richiamare il Michel Foucault di Les mots et
les choses per sentire allo stesso tempo la sintonia e la discordanza di
Scorrano con le inquietudini del suo tempo: Foucault individuava tra Cinque
e Seicento la rottura di un paradigma di lettura del mondo, in cui il
criterio ordinatore era la continua consonanza tra le parole e le cose.
Questo ordine viene fracassato sonoramente dalle rivoluzioni scientifiche,
ma anche dalla letteratura: la folle impresa di Don Chisciotte, incapace
ormai di vedere la realtà dei mulini a vento e capace solo di trasfigurarla
tragicamente nei draghi della letteratura cavalleresca dimostra da vicino
questa tragica scissione. La modernità letteraria di Scorrano, sotto
l’ottica dantesca, reagisce sonoramente a questa frattura, perché, in
verità, denudando il testo ne mostra la continuità tramite la costanza
verbale: il Dante di Scorrano resiste alle intemperie, ma è un’utopia, una
trappola, qualcosa che segnala l’impossibilità della scrittura di vedere il
mondo, o di reagirne – faccio l’esempio del Dante di Mario Luzi – con
risentito moralismo. Che, in fondo, è la stessa cosa.
Da questo punto di vista, andrà rilevata anche la peculiare infedeltà di
Scorrano a Vallone – ma sia chiaro che un’infedeltà è spesso sintomo di
grande innovazione – soprattutto laddove egli rinuncia alle robuste, ma
onestamente al limite del rigido, costruzioni contestuali e ideologiche del
professore di Galatina: preferendo, in realtà, la più minuta casistica, che
però ha come conseguenza un grande surplus di verità. Così, un articolo su
cui ritorno di frequente, che è Da Firenze a Firenze: vicenda politica della
Commedia, propone una lettura a larghe campate della visione politica che
emerge dal capolavoro dantesco, incentrandola sulla seconda protagonista del
poema, e cioè la città amata, nostalgicamente vagheggiata, odiata, Firenze.
La politica della Commedia, dunque, si incarna in una realtà storica che è
subito trascesa a simbolo: è il miglior antidoto alle letture troppo
brutali, ma anche filosofiche, o a tesi, che Scorrano stesso ci ha insegnato
a esorcizzare nel suo capitolo più valloniano, Il Dante “fascista”.
Ciò che vi propongo, infine, è uno Scorrano francese, quasi
post-strutturalista: non è un’idea che ha bisogno di verifiche né di
attestazioni specifiche. In fondo, quella cultura ha penetrato ampiamente la
nostra letteratura con l’amato patrocinio di Calvino: a quella cultura,
secondo me, Scorrano è debitore anche per la sua peculiare modalità di
costruzione saggistica. La forma-saggio, come si sa, è ben tipicamente
francese: Scorrano la declina sempre intorno a un’idea precisa, che rende la
sua produzione una miniera inesauribile di suggestioni, più o meno limitate
a una parte del testo: se scorrete la sua bibliografia, avrete una cassetta
degli attrezzi che comprende la carità di Sapìa, un Dante sotterraneo o
laterale, abbandoni e bontà riconquistate etc. Non si tratta mai di idee
isolate, di ricerca di bella pagina: sono potenti strumenti di
interpretazione. Si veda, nel caso del canto di Pier della Vigna, come
l’orizzonte di negazione proposto da Dante al suo lettore tra gli sterpi
della selva dei suicidi sia l’ottica con cui si analizzano i singoli passi
del testo. In fondo, era la stessa domanda che Gilles Deleuze poneva sullo
sfondo della ricerca filosofica. Che cos’è la filosofia, si chiedeva il
filosofo in un famoso volume scritto insieme a Guattari: essenzialmente,
rispondeva, creazione di concetti. Scorrano ci ha lasciato, e continua a
farlo, una miniera di concetti, incarnati nelle parole.
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Antonio Montefusco |
Riferimenti bibliografici
G. CARAMUSCIO, Virtute e conoscenza. Per le nozze d’oro di Luigi Scorrano
con Madonna Sapientia, “Quaderni de L’Idomeneo” 23, Lecce, Grifo, 2015.
L. SCORRANO, Da Firenze a Firenze: vicenda politica nella “Commedia”,
“Letture Classensi”, 16, Ravenna, Longo, 1988.
L. SCORRANO, Tra il “banco” e “l’alte rote”. Letture e note dantesche,
Ravenna, Longo, 1996.
L. SCORRANO, Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna,
Longo, 2001.
L. SCORRANO, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del
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