Abitavo il rione tugliese detto "Santa Lucia". Non si può
sbagliare; si trova dove, salendo la via "Fratelli Bandiera" (allora
denominata " via Tunisi ") si gira verso la sinistra ad angolo quasi
retto, raggiungendo così, verso Montegrappa, la "via Pasubio",
oppure, scendendo, la " via dei Mille".
E' un rione vicinissimo dal centro del paese ; pertanto,
trovandocisi, sembra una specie d i calmo rifugio, un'oasi di
tranquillità; si potrebbe pensare a un sito o un paesetto di
campagna; ma come si udiva bene, vicinissimo e come presente, il
suono delle due campane della chiesa matrice! e anzitutto quello
della più grande campana, che liberava nel cielo sereno e azzurro le
sue ampie vibrazioni. Nella parte interna dell'angolo retto, due
scalinate conducono a due umili cortili e alle loro rispettive
abitazioni. Si nota in questo luogo, nella muraglia, una nicchia
contenente un bel dipinto del "Crocefisso" ; qualsiasi persona
passando davanti a questa bella icona, sovente illuminata di ceri
votivi e parata d'umili fiori, la saluta piamente, facendosi il
segno della croce.
La mia casa nativa, situata in questo pittoresco rione, facendo
parte del " centro storico" è rimasta tale quale era più di
cinquant'anni fa; si trova alla sinistra della scalinata di cemento
grezzo che s'incontra frontalmente venendo dalla "via Plebiscito";
le sue muraglie, sempre impeccabilmente imbianchite di calce fresca,
si coprono di delicati riflessi rosastri al sole levante, rimandando
una violenta ed accecante luce nell'ora meridiana, e caldi toni
arancione al tramonto del sole. Una piccola inferriata s'affaccia
sulla stretta via; è quella della camera matrimoniale, dove nacqui,
il Capodanno del lontano 1946 ! Ora, sull' angolo di questa casetta
è istallato l'impianto della luce pubblica, un bel lampione appeso
ad una attrezzatura metallica, che presenta eleganti forme curve
nello stile antico, scelto con gusto sicuro, e che s'integra bene in
questo antico punto del paese. Ogni anno, quando passo le mie
vacanze nel mio paese natio, l'emozione mi stringe il cuore quando
la rivedo.
Nella mia infanzia ('allora "via Tunisi" non aveva l'aspetto lindo e
netto dell' attuale "via Fratelli Bandiera", accuratamente
pavimentata; era sassosa, piena di buche, e come solcata dalle
impronte del metallo che cerchiava le enormi ruote dei "traini".
L'inverno era fangosa, quasi impraticabile; l'estate ogni passaggio
di un' improbabile e rarissima vettura, o, più spesso, di una
carrozza a cavalli, sollevava un nuvolone di polvere bianca e
finissima, che s'infiltrava ovunque. Sono cresciuto in questo
piccolo universo; purtroppo sentivo, confusamente in me, la presenza
di un mondo molto più vasto, più ampio. Le umili proporzioni di
questo pittoresco rione, delle sue abitazioni, mi facevano
sospettare, indovinare con maggior sicurezza, la presenza di un
mondo vastissimo. Quale era questo mondo infinito che si creava
nella mente di un ragazzino di sei - sette anni? Non sorgeva dalla
sua pura immaginazione, ma nasceva dalle fonti orali che si udivano
nelle correnti conversazioni. Si sentiva dire, a scuola, che il
nostro bel Paese, strettamente circondato da mari azzurri e
bellissimi, dei quali s'imparava il nome sulla carta geografica
murale, era limitato al nord dalle Alpi, favolose e sempre coperte
di neve. Ma chi poteva immaginare l'enorme distanza che separava il
nostro umile e bel paesetto da quelle rocciose Alpi ? Al di là di
queste, c'erano altri mondi, altre contrade, altri paesi, molto
diversi dal nostro, sicuramente più freddi e più grigi, che avevano
nome "Francia" "Svizzera" "Belgio". Non si parlava allora delle
Germania, del Lussemburgo oppure dell'Austria. Mio padre, fin dal
1949, era espatriato in Francia, precisamente in Lorena, vasta
regione di miniere di terrò e di fabbriche di acciaio, per fare
sopravvivere la famiglia. Nelle sue lettere, aspettate sempre con
ansia, si poteva notare il clima molto freddo di questa regione
francese dei confini nord- est, e i suoi terribili e gelidi inverni
; ma queste lettere parlavano anche delle difficoltà del dopoguerra,
che colpivano la Francia, come colpivano l'Italia e tutta l'Europa:
stipendi modesti, appena sufficienti, nonostante si lavorasse
duramente, di notte come di giorno; scioperi frequenti, e anche,
certe volte, violenti scontri tra operai e truppe della polizia o
della gendarmerìa; rischio per gli operai stranieri che facevano lo
sciopero di essere rinviati nel paese d'origine ecc... Ma queste
lettere descrivevano anche le belle e profonde foreste francesi,
ombrose, fresche l'estate, e di un verde favoloso; il cielo notturno
delle città, infuocato da terribili, dantesche luci, liberate dalle
gigantesche fabbriche, dove si elaborava l'acciaio destinato alle
ferrovie, alle macchine, ai treni, alle navi, ai ponti... Notte e
giorno, centinaia, migliaia di operai, come umili formiche, si
attivavano per ricostruire l'Europa, per tentare, forse, un giorno,
prossimo o lontano, non si sapeva ancora, di reintrodurre il
benessere, distrutto e compromesso dalla recente guerra.
Cosi, mi trovavo, sospeso tra un mondo che conoscevo, umile ma
sicuro, povero ma caldo, cosi bello, e un mondo nel quale il mio
destino mi aspettava, ignoto, straniero, ostile, e, sicura mente,
molto più freddo. Sapevo che dovevo lasciare il primo per il
secondo. Mi sentivo in aspettazione, in attesa... Allora facevo in
modo di goderlo, questo mondo natio, il più bello che possa
esistere, al massimo punto.
Più le lettere di mio padre parlavano di fitte nebbie, di piogge
ghiacciate, di masse nuvolose che trasformavano i campi e i pascoli
in immensità ovattate, sotto le quali scompariva ogni fosso, ogni
vallone, ogni prominenza, più godevo i cieli azzurri e sereni, le
dolci giornate di primavera, il caldo, tremendo, sole dell'estate.
Queste lussureggianti foreste, cosi lodate per via epistolare, avevo
ansia di conoscerle, perché sentivo confusamente, ma in modo via via
più sicuro e preciso, che la partenza verso il lontano e sconosciuto
mondo francese era oramai imminente ; ma intanto, ogni volta che era
possibile, non mi saziavo dello stupendo spettacolo, sempre diverso,
del nostro bellissimo mare Ionio, sia nella calma della stagione
estiva, sia nei tempestosi fracassi dell'inverno, quando i
prodigiosi cavalloni, alti come una casa, si squarciavano sulla
roccia eterna.
Quali sono i ricordi rimasti impressi in me, per sempre ? Tantissimi
e bellissimi, come sono sempre i ricordi dell'infanzia, quando si
scopre il mondo. I tempi erano duri, ma con l'arrivo del denaro che
papa mandava dalla Francia, si stava bene. Duri erano quei tempi,
dicevo, ma belli e felici, perché, avendo poco o nulla, un niente ci
accontentava ; e noi, bambini, ci accontentavamo di poco. Questo
poco, queste piccolezze, con le quali riuscivamo a giocare,
rappresentavano tutta la felicità del mondo: una rarissima
caramella, un fischietto di terra cotta (che si comprava a ALEZIO,
alla festa dell' Alizza), due noci, un umile giocattolino di
legno...
I vicini di casa, puntualmente, ogni estate, mi portavano con loro a
soggiornare nelle campagne sassose di Montegrappa ; l'umile "furneddhu",
senza porta, dal suolo di terra battuta, era il rifugio dell' intera
famiglia, per tutta la stagione estiva. Non avendo niente da fare
durante le lunghissime giornate d'estate, passavo il tempo a
osservare la viva lucertola scaldarsi al sole, a percorrere queste
alture coperte di ulivi, in cerca, secondo la stagione, di nespole,
di ciliege, d'albicocche, oppure di deliziosi fichi.
Come si aspettava con ansia la cena serale, ch'era un intenso
momento di convivialità! Quando eravamo tutti seduti davanti
all'entrata "del furneddhu la pasta e fagioli" la "pasta e ceci ",
oppure la " tria" con i cavoletti, avevano, oltre un profumo intenso
che si spandeva nelle campagne, un sapore squisito e genuino.
Spesso, all'ora della cena, ci interpellavamo, da un "furneddhu all'
altro, che s'indovinavano, nell’intenso buio della campagna,
mediante la debole e vacillante luce di una lampada a petrolio
appesa sopra la compagnia che si stringeva intorno al tavolone
improvvisato Le prime piogge, all'inizio di ottobre, davano il
segnale del rientro al paese. La scuola riprendeva; le classe
elementari si svolgevano nelle aule del palazzo che diventerà poi il
municipio, in seguito ancora la scuola media. Quest'immobile
trovandosi vicino alla ferrovia, ogni volta che passava il treno
tutti si alzavano e si affacciavano alle finestre, nonostante i
richiami e i rimproveri della maestra. Questo treno, quando passava,
mi faceva pensare "all'altro mondo", verso il quale mi sentivo
destinato ad andare, presto o poi ; ma sapevo benissimo che questo
modesto trenino portava i suoi passeggeri soltanto a Lecce; quasi
sempre, il medesimo pensiero mi veniva in mente: quanti treni si
debbono prendere per arrivare " lassù ", cioè in Francia, al di là
dalle Alpi ? La scuola trovandosi anche vicino al cimitero, quando
c'era un funerale, segnalato dai solenni accenti della banda, allo
stesso modo tutti si alzavano per osservare, cercando così un
piccolo svago alla lezione in corso. Ma queste abitudini, di alzarsi
al minimo piccolo evento che si svolgeva all'esterno della scuola,
non durarono tutto l'anno scolastico, perché la maestra non
tollerava più tali distrazioni. Quando s'indovinava un funerale, lei
si posteggiava vicino alle finestre, impedendo cosi ogni movimento
collettivo, perché nessuno osasse più alzarsi. Certe volte
consentiva a descriverci la composizione del corteo:
«C'è don Rocco (oppure don Vito, oppure don Nicola, oppure tutti e
tre insieme, quando il funerale era quello di una personalità), ci
sono i frati francescani del convento ; ci sono le suore ; c'è la
banda...» Durante il pomeriggio, una volta finiti i compiti,
andavamo tutti, i bambini di "Santa Lucia", i miei coetanei, a
giocare sotto il ponte della ferrovia, nel quartiere detto "La Longa".
Certe volte ci azzardavamo a salire su Montegrappa; c'era anche chi,
attraverso i vetri delle alte finestre della cappella rotonda,
salutava la Madonna mutilata con una breve preghiera. E così
passarono, velocemente, i giorni, i mesi, gli anni... Così arrivò,
nel maggio del 1954, il momento della partenza verso la Francia,
paese amico, e direi, " cugino ", che ci accolse tutti, e dove, sin
dal quel momento, si svolge la mia vita.
Ma come potrò mai dimenticare quel clima mite e soleggiato, quelle
mattinate serene e dolci di maggio, i maestosi e secolari ulivi, i
lussureggianti vigneti, i primi fichi maturi sull'albero, tutta
l'abbondanza e la varietà della frutta estiva, e soprattutto i
nostri due bellissimi mari, sia di un intenso azzurro, sia di un
limpido smeraldo?
Come potrò mai, o Tuglie, dimenticare le tue case bianche,
risplendenti nel sole dell' estate, circondate da un mare di ulivi e
di vigneti?
Ogni anno, voglio, o Tuglie o elegante Lecce, o antica Puglia,
inebriarmi delle vostre bellezze.
Prof. Silvano Tarantino
Villerupt - Francia
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