Arriva
nei negozi di dischi e nelle librerie, l’ultimo cd di Mino De Santis, “Caminante”,
edito da Ululati (2012). Partiamo dalla casa editrice e poi ci occuperemo
dell’autore. Un lupo che abbaia alla luna, nell’ultima di copertina del cd,
è il marchio inconfondibile della casa editrice Lupo di Copertino. “Ululati”
è infatti una nuova etichetta discografica inaugurata con questo cd ed è la
nuova avventura nella quale si è imbarcato il poliedrico editore Cosimo
Lupo, l’ennesima scommessa sul nostro territorio da parte di questo
vulcanico e sorprendente operatore culturale il quale, per non farsi mancare
nulla, fa pure l’attore, ovvero interpreta, in un breve cammeo, il ruolo del
morto nel video di presentazione del cd, quello di “Lu ccumpagnamentu”,
track list dell’album appena uscito.
E veniamo a Mino De Santis, autore di testi e musiche di questo cd, che è il
secondo pubblicato dopo “Scarcagnizzu – Vento dal basso” ( Associazione
Culturale Fondo Verri, 2011). Un punto di riferimento importante nella sua
formazione musicale è stato Fabrizio De Andrè, se è vero che ancora oggi
Mino De Santis porta in giro un recital su musiche e testi del grande
cantautore genovese. È chiaro che De Santis paghi un tributo importante a De
Andrè, così come a certi chansonniers francesi, quali Brassens, Brel, dai
quali poi lo stesso De Andrè era stato influenzato nella prima parte della
sua carriera musicale. Inevitabile l’accostamento a Paolo Conte, per certe
atmosfere fumose che si potrebbero respirare nelle sue canzoni, o al Conte
d’oltreoceano, vale a dire Tom Waits, per gli stessi motivi. Evidente a
tutti la sua somiglianza fisica con Luciano Ligabue, più che con il giovane
Drupi, e con Piero Pelù. Si è anche detto della vena ironica delle sue
canzoni che lo accomuna al grande Rino Gaetano. Chiusi i conti con il
passato però, e chiedendo venia all’autore per averlo ancora una volta
zavorrato al suo background musicale, bisogna dire che De Santis si è andato
affrancando da questi suoi modelli di riferimento. Mino De Santis è Mino De
Santis, cantore appassionato, lucido, irriverente, divertente e divertito,
di questa nostra terra salentina, dei suoi vizi e delle sue virtù, delle sue
luci e delle sue ombre. De Santis è cantore dei chiaroscuri, delle
ambivalenze, dei regressi dell’anima, dei coni d’ombra, delle antinomie. Il
suo cantato è lento, a volte strascicato, ma la dizione è buona , perfetta
l’articolazione delle parole, e questo è importante, cantando in dialetto
salentino, per potere arrivare anche al più vasto pubblico regionale e
nazionale. Nel cd,
compare
una piccola presentazione di Antonio Pagliara e nel booklet che lo
accompagna sono pubblicati tutti i testi. “Sempre in viaggio” ha per
sottotitolo “Lombardia” ed è incentrata su quella insoddisfazione, che deve
essere dell’autore, che non ha confini di spazio né di tempo, la voglia di
andar via, scappare da questo posto, raggiungere il settentrione d’Italia,
per poi farsi prendere da una struggente nostalgia e dalla voglia di
ritornare subito al sud, per non starci bene e volere di nuovo scappare. In
“La prucissione” ritorna su un tema già affrontato in “La festa patronale”
che compariva nel precedente cd, mettendo alla berlina tick, smanie di
presenzialismo, bigottume, ipocrisia, tamarraggine e squallore morale che
fanno bella mostra di sé nei nostri paesini in occasione delle feste
patronali. “La zoccola”, velenoso atto di accusa nei confronti del
perbenismo dilagante, delle false morali borghesi, pronunciato da una
sgualdrina, non può non far andare il nostro pensiero al capolavoro
deandreiano “Bocca di rosa”; così come “Lu mbriacu” mi ricorda
istintivamente l’omonima canzone di Francesco Guccini, “L’ubriaco” appunto,
del 1970. “Nobili e cafoni”(in cui canta, special guest, Dario Muci)
ripropone, in chiave salentina, sia pure velatamente e con una vis polemica
più forte (e a momenti, forse, un po’stridente, nella dissonanza delle due
voci), il messaggio universale de “ ‘A livella” del principe De Curtis in
arte Totò. Echi del più puro cantautorato francese, struggente malinconia,
si avvertono in “Unnu Pici”, a mio giudizio la più poetica dell’album, una
amara constatazione sulla caducità della vita, sul passare di tutte le cose,
forse anche su un effimero successo non so fino a che punto ricercato (già
Dante nel Purgatorio osservava che la nostra fama è “color d’erba che viene
e va” ), nel dialogo fra il giovane autore, ancora inesperto del mondo e
delle sue storture e il saggio Unnu Pici, segnato nel corpo e nell’anima da
quegli accidenti della vita che lo hanno reso stanco e malato ; il giovane
autore cerca il consenso dell’anziano compare ed è bellissimo, nonostante la
grande differenza anagrafica fra i due, ritrovarsi poi, nel finale della
canzone, uguali nei sentimenti, fratelli di vino e di carte, e vedere gli
anni, che sembravano secoli, sparire e diventare attimi. “Lu fidanzamentu”,
“scene da un interno”, ritrae certe tragicomiche situazioni che potevano
verificarsi, nella società contadina degli anni passati, in occasione di un
fidanzamento, quando la cosiddetta “trasuta a ccasa”, ossia la presentazione
dei fidanzati alle rispettive famiglie, da occasione di gaudio e corale
letizia, poteva trasformarsi in una lite furibonda con tutti che si
scagliavano contro tutti e in cui volavano insulti ed anche botte,
rinfacciandosi a viso aperto accuse sempre sottaciute e infamie di ogni
tipo, salvo ricompattarsi, nel finale, in ragione del fidanzamento dei due
giovani e quindi dell’interesse superiore (della “ragion di stato”, direi,
più alla Machiavelli che alla Botero). “Lu sacristanu” fotografa il ritmo
lento e assorto con cui scorre la vita di questo operatore religioso il
quale, più che servitore della chiesa, sembra servitore di se stesso e della
propria pancia. Dopo “Lu ‘ccumpagnamentu” in cui l’autore tratteggia, da par
suo, un tipico corteo funebre nei paesi del nostro sud, con la banda e i
parenti dietro la salma del defunto, troviamo “Lu bonacciu, altro ritratto
di quei volti e tipi umani che ci regala De Santis, uno dei più riusciti
dell’album. Lu bonacciu, anche detto “bonaccione” è lo scemo del villaggio,
un uomo sempliciotto che con candida ingenuità ( e vi ritroviamo i tratti di
un altro puro di cuore salentino, e a suo modo bonacciu, ovvero San Giuseppe
da Copertino), si fa delle domande tanto scontate quanto difficili e alle
quali non si darà risposta. Questo bonaccione, che De Santis, nel finale
della canzone mette in croce come Gesù, rappresenta degnamente quella
galleria di umili, sconfitti, protagonisti del suo canzoniere, insomma gli
ultimi della vita, ai quali l’autore sembra guardare con unanime
partecipazione, con una certo compiaciuta solidarietà. Nell’introduzione e
nel finale poi compare la voce dell’attore Mario Perrotta. Il tutto nella
lingua dei nostri avi, “quella lingua di dentro: un dialetto”, per dirla con
Antonio Errico. E’ una precisa scelta di campo quella che fa l’autore,
perché comunicare, oggi più che mai, in lingua dialettale, significa
caricare la propria espressione artistica di una valenza che definirei
sociale, in quanto essa contribuisce a rafforzare la propria appartenenza
identitaria, soprattutto a vantaggio delle nuove generazioni. Certo, il
dialetto, in De Santis si eleva a dignità di lingua poetica. L’autore
recupera alcuni termini desueti, altri ormai del tutto usciti dall’uso,
pensiamo all’intraducibilità di certi termini dialettali, che non hanno il
corrispettivo italiano, e anche al loro valore onomatopeico. Altre volte, la
lingua si piega alla ricerca del suono, trattandosi di composizioni
musicali, ma comunque mai a discapito del senso della frase e di quella
intensa liricità che è nota distintiva di tutti i testi di De Santis, cui
non fa difetto una voce dal registro di petto, cioè bassa, ma pur duttile,
che sa dare ad ogni parola il colore adatto, e non difetta, direi, nemmeno
una notevole presenza scenica che non guasta per uno che, sia pur riottoso,
si trova a frequentare il mondo dorato dei media. Senza nessuna retorica, De
Santis sa fotografare il Salento (lentu lentu, secondo l’assioma da lui
cantato in “Scarcagnizzu”), con i suoi tratti valoriali, con le sue abulie e
i suoi entusiasmi, come una terra di mezzo, una terra di confine quale
appunto è, sospesa fra la luce accecante degli immensi giorni e le ombre che
confondono nel buio della sera i contorni delle cose. I suoi personaggi,
figure minori di un Salento “minore”, sono gli straccioni, perditempo dei
bar, i compagni di brigata, gli anziani e le anziane del paese, figure
consuete, insomma, che si muovono in un’atmosfera di quartiere, e che ci
fanno guardare indietro al passato, un passato non remoto, ma prossimo,
fatto di usi e costumi quasi scomparsi, sempre descritti dal cantautore con
quella vena giocosa che gli è propria. In questo guardare indietro al
passato, c’è quasi una forma di rivalsa nei confronti della modernità
selvaggia e in questo vigore rivoluzionario della poesia di De Santis è il
tessuto connettivo della sua produzione musicale. In questo suo cantare, c’è
la voce di un Salento riposto ma brulicante di vita vera, sospeso fra
incanto e disincanto, quel Salento, che tanto ci assomiglia, che arriva
sempre un attimo dopo all’appuntamento stabilito, che manca sempre di poco
la grande occasione della propria vita.
da “Il
Paese Nuovo” 14 luglio 2012
Paolo Vincenti
"È tornato allo scadere dell'anno e dopo "Scarcagnizzu",
refolo vorticante di vento che solleva gonne e polvere siamo al secondo cd,
"Caminante". Mino De Santis centellina le sue canzoni così, dialetto quanto
basta e soprattutto un passo di lato rispetto a tutto l'armamentario
politicamente corretto delle salentinità più o meno tamburellanti.
Nulla sappiamo delle sue parentele musicali, ma resta il sospetto che i rami
del suo albero genealogico risalgano verso George Brassens e soprattutto il
cattivo carattere di Jacques Brel. Infatti nei testi di De Santis non c'è
traccia di cadute buoniste o furbette e, non a caso ha trovato ospitalità
nella nuova etichetta "Ululati" di Cosimo Lupo, editore non certo arreso
agli spiriti del tempo.
Insomma De Santis non c'entra con la 'bandistica salentina' e soprattutto
finora si è salvato da musicologi, etno-musicologi e sociologi; canta
seduto, come un vecchio narratore di storie, sembra anche buono, ma i suoi
lampi di cattiveria scaldano il cuore."
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Tuglie...per raccontar paese...
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