Assisi sulla parte posteriore del tuo ape bianco 600, io e Annalisa e Ilaria
gustavamo il vento meridiano che, attraverso la discesa della croce, ci portava
da scuola a casa tua. Sulla soglia della loggia, Valeria ci aspettava con aria
impenitente; Roberto, Tommaso, Loredana ed Emanuela si muovevano, beati loro,
autonomamente con le biciclette, ma tutti penetravano nell’antro colorato
governato da una ‘Nziata meticolosa e piumata. Tutto era giallo e azzurro dentro
casa, tra il pozzo e la cucina sacrificata sotto l’arco; l’odore di frittata di
cozze ci si appiccicava alla pelle, e di nascosto ne mangiavamo gli strati un
po’ bruciacchiati e croccanti sotto lo sguardo tollerante della nonna. Tu invece
ci osservavi severo, ma non ci credevamo; facevamo l’amore col tuo sguardo,
aspettando che ci concedessi che ci avvicinassimo alla tua sedia a fine pranzo.
A capotavola, davi le spalle al camino verde e bianco, accanto allo stipu;
noi, seduti chi per terra, chi sul bordo del caminetto, aspettavamo che
riempissi il pomeriggio di storie incredibili, degli scherzi giocati a
caniatuta, delle storia d’amore e fuga incredibile de fratuta lu Pippi
e de l’Annetta. Poi c’era la siesta; i tempi li decidevi tu, con pugno
virile. Lo spazio delle discussioni non era previsto; nonna obbediva, noi dietro
di lei.
Forse ho capito presto che stavi dalla parte sbagliata, ma non ho mai preso il
coraggio con le mani, per litigare, cambiare la tua testa appesantita da un
secolo pesante. Anche qui, da questo cantuccio umidificato dallo scirocco e
dallo Jonio, in mezzo alle cripte e alli diauli sparsi tutto intorno a
noi per premerci le teste con la paura, arrivava qualche piccola briciola della
grande Storia: lu moschettu e la Guerra d’Albania, una mitologia che gli
zii e la mamma ci filtravano trasformandola in favola inoffensiva. Tu restavi
imprigionato, resistente ad ogni piccola curva che il progresso ti proponeva; le
tue braccia erano capaci di sollevare secchi ricolmi di acini neri, prima della
spremitura. Ci mettevamo sotto la macchina pigiatrice, che papà ti aiutava ad
azionare, per bere il primo mosto; il nero dei raspi non andava via dai
polpastrelli, mentre tu, seduto sullu pazzulu ci raccontavi di quando si
davano da bere, ai poveracci del paese, il vino vecchio e l’aceto. Questa
crudeltà ci faceva ridere e ci teneva attoniti. L’estate se ne era andata da
poco; poche tracce erano rimaste dei tuoi cavalli e delle tue canzoni intonate
sul biroccio.
Io l’ho sempre saputo di essere il nipote de lu Sinu Matinese. Me lo
chiedevano tutti: «te ci sì fiju?», «de l’Ada de lu Sinu Matinese..» Sei
ancora lu Sinu Matinese, sei ancora tutt’uno con lo spostacarri
all’angolo di san Giuseppe, dove avevamo appuntamento quando mi portavi a
comprare il cappello al camioncino che posteggiava alla villetta, o mi
costringevi a tagliare i capelli a lu Nzella. Sei ancora lì, con le tue
braccia annodate come un ulivo frondoso. Sempre lì, geloso della memoria che ti
porti nello stomaco e nel cuore; io la vorrei qui, con me, quella memoria,
vorrei che mi rispondessi e mi dicessi cosa pensi di me.
Sei lì, sorridente, che saluti col cappello in mano, e io non sono stato capace,
abbastanza, di mostrarti la caverna di me stesso, di dirti che solo da lontano
mi pare di venire dal Bosforo, che solo ora mi rendo conto che porto anch’io,
stampigliati sulla retina, i pozzi di scorpioni e lucertole. E la grotta
profonda delle tue rughe sul tuo viso terragno ora mi dicono che ci hai
insegnato ad abbrancarci alla vita senza mai rinunciare a respirare e sorridere.
Fuori è notte, Parigi si imbianca di neve, e quanto mi pesa non essere lì.
Guardo la finestra: il suo bianco non è come il bianco del tuo ape, e tu mi
manchi, perché invece sai di calce e di sole. Buon centesimo compleanno, Sinu
Matinese.
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Tuglie...per raccontar paese...
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