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Negli ultimi anni del suo regno, Ferdinando II di Borbone accentuò
la repressione contro i ribelli e i detenuti politici. Alla sua
morte, avvenuta nel maggio 1859, saliva al trono il figlio Francesco
II (Franceschiello) di appena 23 anni. Debole di carattere, scarso
di cultura e di esperienza, si propose di seguire la politica
reazionaria del padre, senza neppure sospettare la gravità del
momento che l’Italia attraversava.
Gli avvenimenti del centro e nord Italia e la propaganda attivissima
della Società Nazionale avevano eccitato gli animi dei patrioti nel
regno di Napoli e di Sicilia ed avevano largamente suscitato il
sentimento unitario e lo spirito di insurrezione contro il re
Francesco II.
Francesco Crispi, che si era recato di nascosto nella sua Sicilia
per scandagliare gli animi dei patrioti, premeva sopra Garibaldi
perché effettuasse uno sbarco nell’isola pronta a insorgere.
E infatti, il 4 aprile 1860 alcuni rivoluzionari di Palermo
insorsero contro il governo borbonico e si strinsero a difesa nel
Convento della Gangia. Altri audaci, percorrendo i quartieri della
città, esortavano il popolo alla ribellione. Ma l’insurrezione a
Palermo fu facilmente domata mentre si rianimò nelle campagne per
opera di Rosolino Pilo, sbarcato qualche giorno dopo a Messina con
alcuni compagni. A questo punto le gravi notizie di Palermo e le
suppliche degli esuli siciliani spinsero Garibaldi all’azione.
La notte del 5 maggio, dallo scoglio di Quarto, in Liguria,
salparono 1085 volontari guidati da Giuseppe Garibaldi. Essi
partivano per abbattere un regno. L’11 maggio sbarcarono a Marsala
sfuggendo al bombardamento delle navi borboniche. Il giorno dopo i
Mille, come furono presto denominati, mossero verso la città di
Salemi, dove Garibaldi pubblicò un proclama in cui dichiarava di
assumere in nome di Vittorio Emanuele II la dittatura della Sicilia;
là accorsero le prime schiere degli insorti siciliani (picciotti).
Con il suo esercito di camicie rosse e di picciotti, il Generale si
mosse verso Palermo per poi conquistare l’intera isola. Le truppe di
Francesco II inutilmente tentarono di resistere all’avanzata dei
volontari garibaldini. Il valoroso Generale, nell’autunno del 1860,
aveva già conquistato il Regno di Napoli e si preparava a marciare
su Roma per abbattere il potere temporale di Pio IX.
Francesco II, cercando disperatamente una via di salvezza, concesse
la Costituzione e offrì al Piemonte l’alleanza che pochi mesi prima
aveva rifiutato. Tutto inutile, perché i rapidi e felici successi
dell’impresa garibaldina avevano indotto il Cavour ad uscire dalla
sua apparente neutralità. Egli, ormai sicuro del successo, esortava
Garibaldi a completare la conquista del Meridione.
Forte di tale consenso, il valoroso condottiero, nella notte dal 19
al 20 agosto, passò lo stretto di Messina ed iniziò l’avanzata verso
Napoli. L’esercitò borbonico si ritirò in gran fretta e mentre il re
Francesco II si rifugiava nella fortezza di Gaeta, Garibaldi entrava
trionfalmente nella capitale partenopea (7 settembre).
Una legge approvata dal Parlamento piemontese dette al Governo pieni
poteri per effettuare l’annessione delle province “napoletane”,
previo l’espletamento del Plebiscito. Giuseppe Garibaldi, che
desiderava compiere l’unità d’Italia muovendo su Roma e Venezia,
dovette cedere alle richieste e convocare i comizi in tutto l’ex
regno di Napoli. Ormai, intorno a Francesco II, tutti tradivano o
pensavano a salvarsi dal disastro: l’esercito era allo sbando, la
flotta passava al nemico, solo il ministro Liborio Romano era
rimasto in carica, preparandosi all’incerto domani.
Dopo la sconfitta dell’esercito di Francesco II nella battaglia del
Volturno (sulle cui rive si scontrarono 20.000 borbonici con 22.000
garibaldini ), venne indetto, per il 21 e 22 ottobre 1860, il
Plebiscito, al quale partecipavano i cittadini maschi di età
superiore ai 21 anni che godevano dei diritti civili. Ogni elettore
doveva esprimere il proprio parere, votando Sì oppure No, sulla
proposta di annessione dell’ex Regno di Napoli al Regno Sabaudo:
1.313.376 elettori votarono Sì e solo 10.312 votarono No. In quei
giorni (21 e 22 ottobre) il popolo del sud dichiarò decaduta la
dinastia dei Borbone e si affidò ai Savoia sperando nella
distribuzione delle terre ai contadini, nella riduzione delle tasse
ai poveri, nel lavoro e nella prosperità per tutti. Ma non se ne
fece niente né allora, né dopo, anzi la repressione nei confronti
dei contadini che chiedevano le terre fu dura e in qualche caso
cruenta. Una volta portata a termine l’impresa di Garibaldi e
proclamato il Regno d’Italia, tutte le promesse sfumarono e fra la
gente del Sud incominciò a diffondersi il malcontento, la sfiducia,
la ribellione, il brigantaggio.
Nel Comune di Tuglie, a pochi chilometri da Gallipoli (sede di
Distretto), le elezioni per il Plebiscito si svolsero, a partire
dalle ore 13,30 di domenica 21 ottobre 1860, nella Congrega di S.
Giuseppe. Gli elettori iscritti nella lista elettorale affissa al
pubblico erano 376 e furono tutti invitati a dare il loro voto ed
accettare o rigettare il Plebiscito che interrogava la popolazione
con la domanda: “Il Popolo vuole l’Italia Una ed indivisibile, con
Vittorio Emmanuele, Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti,
a norma del Decreto Dittatoriale dell’8 ottobre 1860 ?”.
In verità la segretezza del voto non era garantita perché ogni
elettore doveva prendere dalle apposite urne la scheda già
prestampata recante il Sì o il No per poi deporla nell’urna centrale
che era collocata al centro del tavolo davanti ai componenti la
Commissione Comunale, costituita dal sindaco, dal Capitano della
Guardia Nazionale e dai Decurioni.
Nel verbale delle operazioni elettorali si legge: “L’anno
milleottocentosessanta il giorno 21 ottobre nella Congrega di S.
Giuseppe in Tuglie alle ore 13 e mezzo…si è costituita la
Commissione Comunale…Volendo procedere nelle forme solenni di Legge
alla votazione in esame ed alla presenza di tutti gli Individui qui
convenuti per dare il loro voto, abbiamo separatamente letti i
bollettini a stampa contenenti il Sì, e quelli contenenti il No,
rinchiusi i primi in una urna, i secondi in un’altra, situandole
entrambe sopra tavole appositamente preparate a pubblica vista e
collocandovi nel mezzo una terza urna vuota, destinata a raccogliere
i bollettini ottenuti dal libero suffragio dei votanti. Quindi in
continuazione abbiamo letto al pubblico ad alta ed intellegibile
voce il Plebiscito sopra menzionato invitando ciascuno a dare il suo
voto liberamente, secondo coscienza e nel sacro interesse della
Nazione. Dietro di che si è cominciato col massimo ordine e con la
debita solennità legale la votazione suddetta, recandosi al banco
delle urne ciascun votante a solo, e prendendo quel bollettino col
Sì o col No che meglio gli è piaciuto, e che ha deposto di sua mano
nella terza urna vuota di sopra menzionata. A tal modo isolatamente
votando in continuazione, e senza interruzione, si sono i polizzini
di Sì, e di No raccolti come si è detto nella terza urna, questa si
è chiusa a chiave immediatamente ed assicurata alla presenza di
tutta la Giunta, e votanti, e si è spedita in questo medesimo
istante, consegnandosi al Sindaco e al Capo Compagnia di questa
Guardia Nazionale per trasportarla nel Capoluogo della Provincia e
presentarla a quella Giunta Provinciale. Del che si è redatto il
presente verbale oggi 22 ottobre 1860 e si è chiuso alle ore
17,30.Seguono le firme di tutti i componenti la Commissione
Comunale” .
Le elezioni si svolsero regolarmente e non furono turbate da
incidenti che, invece, si verificarono in molti paesi del Basso
Salento (Salve, Presicce, ecc.) a testimonianza del malessere
diffuso tra le classi più povere della popolazione. A conclusione
delle operazioni elettorali, l’urna contenente le schede utilizzate
per la votazione venne portata a Lecce per essere consegnata nelle
mani del Governatore che fece compilare il seguente verbale: “L’anno
milleottocentosessanta, il giorno 23 ottobre in Lecce nel Palazzo
del Governo della Provincia di Terra d’Otranto. Innanzi di noi
Alfonso De Caro, Governatore della suddetta Provincia, e del Sig.
Francesco Mongelli, Presidente della Gran Corte Criminale della
Provincia medesima, si sono presentati il Sig. Vito Marino Vergine,
Sindaco del Comune di Tuglie, ed il Sig. Girolamo Vergine, Capo
della Guardia Nazionale del Comune suddetto portatori dell’urna,
nella quale sono chiusi i voti pel Plebiscito raccolti da quella
Giunta Comunale, ad oggetto di farne a noi la consegna. E però
avendo noi riconosciuto che l’urna in parola è chiusa con
catenaccetto a chiave e che sia nella sua integrità, ne dichiariamo
la ricezione per farne deposito nella Camera di questo Governo
all’uopo destinata, ed esibirla alla Giunta Provinciale…” .
Anche per Tuglie, come per tutti gli altri Comuni che parteciparono
al Plebiscito, non è stato possibile conoscere quanti furono i Sì e
quanti i No degli elettori perché lo spoglio delle schede votate si
svolse nella sede provinciale (in camera chiusa) ed i relativi
verbali furono approvati dalla Corte Suprema (5 novembre 1860).
Comunque, si registrò una stragrande maggioranza di voti in favore
del Sì (in Terra d’Otranto i Sì furono 94.570, i No 929).
Il 7 novembre 1860 Vittorio Emanuele II entrava a Napoli tra gli
applausi della folla festante. Per ricordare lo storico avvenimento,
quel giorno fu proclamato festa nazionale. L’ingresso del Re nella
Capitale fu salutato da quasi tutti i Comuni di Terra d’Otranto con
cerimonie religiose, cortei, discorsi, musiche, luminarie e fuochi
d’artificio.
La città di Lecce, per festeggiare l’avvenimento, organizzò, dal 15
al 20 novembre, numerose manifestazioni che si svolsero fra la calma
e l’ordine del pubblico esultante. La città fu allietata da bande
musicali, fuochi d’artificio, batterie e salve; le strade e le
piazze, illuminate tutte le sere, furono addobbate con bandiere e
stemmi; per tre sere il teatro fu ornato elegantemente per
accogliere il pubblico invitato ad ascoltare musica e concerti;
un’orazione fu celebrata per la circostanza, nella Chiesa della
Diocesi . Per tre giorni fu somministrato pane ai poveri e le dame
leccesi raccolsero fondi distribuiti per le famiglie bisognose della
città ed il sindaco fece estrarre dieci maritaggi, ciascuno di venti
ducati .
Anche nelle città di Taranto, Martina, Copertino, Trepuzzi, Surbo,
Torchiarolo, Gallipoli e Gagliano, l’avvenimento venne festeggiato
solennemente. A Gagliano per poter cantare il Te Deum in chiesa, gli
amministratori dovettero rivolgersi al Governatore, perché il
Vicario Generale di Ugento aveva invitato le autorità, a rinviare la
festa a dopo l’Avvento: la chiesa era in lutto e non poteva
permettere giorni di letizia e gioia. Il Governatore sollecitò il
Vicario a togliere gli ostacoli per far eseguire la festa, perché
protraendoli più a lungo avrebbero spinto le autorità ad indagare
sulle vere ragioni di tale ritardo. L’Arcidiacono G. Calasso si
affrettò a scrivere al popolo di Gagliano perché festeggiassero in
chiesa l’ingresso a Napoli del Re Vittorio Emanuele .
Accanto a tali manifestazioni di giubilo, nei giorni che
precedettero e seguirono il Plebiscito si andavano diffondendo voci
contrarie al nuovo Governo e che immaginavano strepitose vittorie
dei soldati borbonici; voci che continuavano ad essere diffuse anche
dopo l’entrata del re a Napoli e dopo la caduta della fortezza di
Gaeta. Nello stesso tempo, in vari Comuni della provincia, si
verificavano numerosi incidenti e tumulti, in gran parte fomentati
da filoborbonici, contrari al nuovo regime.
Le manifestazioni di intolleranza politica erano alimentate non solo
da vecchi soldati sbandati, da delinquenti comuni e da giovani
renitenti alla nuova leva militare nazionale, ma anche, e
soprattutto, dalla sottile interferenza clericale e dalle segrete
manovre dei baroni rimasti fedeli al Borbone. La credenza
nell’appoggio di Pio IX e di altri monarchi al re fuggiasco
destavano l’illusione di un suo imminente ritorno.
Trascinata da questa illusione, la parte più retriva del popolo si
abbandonava a dimostrazioni di protesta contro Vittorio Emanuele, il
suo casato, il suo regno costituzionale ed il suo governo.
Nei primi tre anni seguiti all’annessione, le dimostrazioni, non
sempre collettive, più spesso isolate e personali, avvennero con
particolare frequenza; con esse si accompagnò il brigantaggio che
prese una piega preoccupante in tutta la vasta regione salentina.
Fra i primi incidenti registrati in Terra d’Otranto il più
significativo fu quello del 15 luglio 1860 provocato in Taranto da
tumulti popolari contro l’imbarco del grano su navi reggine. Si
conclusero poi con una sparatoria contro i liberali che si erano
riuniti presso il Caffè Moro. La polizia ritenne che l’incidente
fosse ispirato dal partito borbonico, in persona del Sottointendente
Giacomo De Monaco, che fu processato . Anche a Ginosa, nei primi
giorni di agosto, si svolsero dimostrazioni che degenerarono in
minacce contro il marchese Nicola Spinola. A Palagiano, i borbonici
pretendevano di nominare gli amministratori comunali.
Le voci sediziose e la protesta contro il nuovo Governo e i
liberali, che avevano preso i posti di comando, si diffusero un po’
ovunque, specialmente a Manduria, Oria, Minervino, Otranto,
Gallipoli, Soleto e Parabita. Tali voci divennero più frequenti
durante l’avanzata di Garibaldi verso la capitale partenopea. Spesso
provocarono incidenti fra borbonici e liberali.
Il 17 settembre 1860 la reazione si fece sentire a San Giorgio dove,
fino a notte fonda, si verificarono agitazioni con grida contro i
liberali. La stessa cosa avveniva a Carosino e Roccaforzata.
Soltanto l’intervento del Sottogovernatore di Taranto, Salvatore
Stampacchia, riportò la calma .
Dimostrazioni reazionarie si svolsero anche a Tuglie la sera del 20
novembre 1860: Francesco Merenda, Felice Negro (servente comunale),
Giuseppe Pastore, Ippazio Malorgio, Stefano Pellegrino, Maria Teresa
Calò (in carcere); Carlo Merenda, Giuseppe Merenda, Giuseppe Guido,
Vitantonio Ria, Giuseppe Santese (fuori carcere), tutti domiciliati
in Tuglie, vennero rinviati a giudizio perché ritenuti responsabili
di “Attentato per far cambiare il Governo di Sua Maestà Vittorio
Emmanuele II” .
Esaminiamo i fatti così come risultano dai rapporti della Guardia
Nazionale, dalle relazioni giudiziali, dalle testimonianze, dagli
atti processuali e da altri documenti.
Verso le ore 18 circa del 21 novembre 1860, perveniva nelle mani del
Giudice Giuseppe Barraco, presso il Regio Giudicato di Parabita, una
comunicazione del sindaco di Tuglie, Vito Marino Vergine, con la
quale si riferiva quanto segue: “La sera del 20 novembre 1860 un tal
Carlo Merenda di Carmine a due ore circa della notte si era permesso
di gridare nel mezzo della piazza di Tuglie “Viva Francesco II” e
ciò per la notizia portata da Taranto da certo Giuseppe Guido di
Pietro, il quale diceva che in quelle contrade erasi inalberata la
bandiera bianca, acclamandosi Francesco Borbone. Il Merenda mi si
diceva essere stato immediatamente arrestato e poi rinviato a casa
per custodia. A tal notizia mi recai nel luogo perché invece di una
sola avevano partecipato più persone che avevano acclamato
Francesco” .
Secondo il sindaco, la notizia portata dal Guido fece sì che Carlo
Merenda si azzardasse di gridare in piazza “Viva Francesco II”. Si
passò quindi all’arresto di tale individuo, ma poiché la sera del 20
precedeva un giorno festivo, si pensò di consegnarlo al padre
Carmine Merenda con l’obbligo di presentarlo alla Giustizia
quand’era necessario. Successivamente, per ordine del Governatore di
Terra d’Otranto, il Capitano della Guardia Nazionale di Tuglie,
Girolamo Vergine, passò all’arresto di Giuseppe Guido che fu
condotto alle carceri distrettuali di Gallipoli. Carmine Merenda ed
il figlio furono poi invitati a presentarsi innanzi all’autorità
governativa per un confronto col Guido.
Giuseppe Tarantino e gli altri testimoni indicati dal sindaco furono
prontamente convocati dal Giudice di Parabita per l’interrogatorio;
essi dichiararono che…la sera di martedì 20 novembre Carlo Merenda
entrava prima di due ore della notte nel trappeto di Vitantonio Ria
sito nella piazza di Tuglie gridando “Viva Francesco II” ed invitato
a starsi queto e ad interessarsi dei propri affari o ad uscirsene ne
uscì e poco dopo s’intese la sua voce gridare nella piazza “Viva
Francesco II” ripetute volte. L’acclamazione della piazza fu pure
intesa da Santo Stefanelli e Saverio Imperiale e dai signori Luigi
Mosco, Vitantonio Santese, Salvatore Vergine, Pasquale Miggiano e
Girolamo Vergine, Capitano della Guardia Nazionale di Tuglie.
Quest’ultimo procedeva per tal ragione all’arresto del Merenda ma
poco tempo dopo lo rinviava nella sua casa perché non aveva fiducia
nella propria guardia per essere questa mancante di armi e
munizioni…
Giuseppe Piccioli e gli altri testimoni affermarono che …Giuseppe
Guido di Pietro aveva portato in Tuglie la nuova che nei paesi
vicini a Taranto cioè in S. Giorgio, Carosino, Montejasi e
Grottaglie era stata innalzata la bandiera bianca del Borbone e si
acclamava per re Francesco…
Il Giudice di San Giorgio, appositamente richiesto, con lettera del
28 novembre 1860 dette assicurazione che tale notizia era vera.
Giacomo De Blasi e gli altri testimoni affermarono che …la sera del
20 novembre fin dalle ore 24 si gridava nella bottega di Ferdinando
Negro (alias Stidda) e fuori di essa cioè nella piazza “Viva! Viva!
Viva! Viva Francesco II” da molte persone. Tra queste furono
osservati Felice Negro, servente comunale, Giuseppe e Carlo Merenda
che acclamavano Francesco II e Giuseppe Pastore, Ippazio Malorgio e
Stefano Pellegrino che dicevano soltanto “Viva! Viva! Viva!”…Quella
stessa sera il detto Giuseppe Pastore e Maria Teresa Calò
acclamarono Francesco II vicino al trappeto di Giuseppe Romano che
si trovava nella piazza…
Tommaso Stamerra (alias Toppi), interrogato dal Giudice Barraco,
rilasciò la seguente dichiarazione: “Martedì 20 novembre, prima che
suonassero le ore due della notte, Carlo Merenda entrò nel trappeto
di Vitantonio Ria gridando “Viva Francesco II”. Giuseppe Tarantino
gli disse allora d’incaricarsi dei fatti suoi e che se avesse
continuato a gridare lo avrebbe cacciato fuori. Egli se ne andò, ma
dopo lo sentimmo gridare altre volte fuori il trappeto “Viva
Francesco II”, si sentì anche il sussurrio di molte voci. Non erano
passati che alcuni minuti, quando esso Merenda entrò fuggendo nel
trappeto. Fu allora che il Capitano della Guardia Nazionale ,
accompagnato dal Cancelliere Comunale e da quattro Guardie
Nazionali, arrestarono Carlo Merenda. Il Capitano chiese prima chi
fosse stato colui che aveva acclamato Francesco II ed alla risposta
di essere stato il Merenda si procedette al suo arresto . La stessa
cosa affermò Saverio Imperiale, di anni 22, “trappetaro”. Il diacono
Vito Antonio Santese precisò quanto segue: “La sera di martedì 20
novembre, a circa due ore meno un quarto della notte, il Capitano
della Guardia Nazionale e l’arciprete Miggiano stavano con Salvatore
Vergine nel laboratorio annesso alla sua Farmacia sita nella piazza
di Tuglie. Ad un tratto sentirono una voce acclamare Francesco II.
La voce replicò e disse chiaramente “Viva Francesco II”. Allora
tutti corsero alla porta della Farmacia e scorsero vicino al
trappeto di Vitantonio Ria un lume e poco dopo le voci di quattro o
cinque individui gridare “Viva Francesco II”, di replica ad
un’acclamazione fatta al nostro invitto Garibaldi dal capo della
ciurma dei trappetari. In quel mentre il Capitano della Guardia
Nazionale con alcune guardie ed il Cancelliere Comunale si portarono
al trappeto per l’arresto degli sconsiderati che avevano acclamato
il sovrano che più non era. Al ritorno del Capitano seppi che si era
proceduto all’arresto di Carlo Merenda… Il farmacista dr. Salvatore
Vergine affermò le stesse cose, aggiungendo che… per pubblica voce
tutto fu causato da Giuseppe Guido, il quale reduce da Taranto aveva
inteso che nei paesi vicini che aveva attraversato tutti acclamavano
Francesco II ed aveva visto innalzare la bandiera bianca dei Borboni…
Il dr. Girolamo Vergine rilasciò la seguente dichiarazione: “La sera
di martedì 20 novembre, a circa le ore due della notte, mentre stavo
discorrendo nel laboratorio annesso alla Farmacia di mio fratello
Salvatore con esso, col Reverendo Arciprete ed il Cancelliere
Comunale sig. Mosco, sopraggiunse il diacono Antonio Santese
dicendomi che nella bottega di Ferdinando Negro (alias Stidda), che
si trovava nella piazza, alcuni individui tra i quali Giuseppe e
Carlo Merenda nonché Giuseppe Pastore (alias Stozzo) avevano gridato
“Viva Francesco II”. Mentre mi accingevo prendere le debite
informazioni del fatto riferitomi, intesi una voce forte gridare
“Viva Francesco II”. Allora io e gli altri corremmo alla porta della
Farmacia e di là vidi un individuo vicino il trappeto di Vitantonio
Ria. Io mi diressi al Corpo di Guardia onde prendere della forza e
portarmi sul luogo delle grida. Vi andai infatti con alcune guardie
ed il Cancelliere Comunale. Bussai alla porta del trappeto e
richiesi al capo della ciurma dei trappetari chi si fosse ardito di
pronunziare il nome di un sovrano che non esisteva più. Quelli
risposero essere stato Carlo Merenda di cui si procedette subito
all’arresto consegnandolo alla guardia del Corpo. Intanto dopo
un’ora dall’arresto venne a trovarmi il padre dell’arrestato a nome
Carmine Merenda pregandomi affinché gli facessi uscire il figlio.
Alla fine cedetti alle sue preghiere e rilasciai il figlio in
consegna del padre perché la guardia mancava di armi e munizioni in
caso di reazione. Del mio operato feci rapporto al Governatore del
Distretto” .
Altri testimoni dichiararono che il giorno precedente, cioè il 19
novembre, alle ore 23 e mezzo circa, Giuseppe e Carlo Merenda si
trovavano presso il negozio di ferramenta di Sebastiano Meli;
siccome Salvatore Piccioli con una bandiera nazionale acclamava
Vittorio Emanuele (in quei giorni si festeggiava l’ingresso del Re a
Napoli), Giuseppe Merenda acclamò “Francesco II che nel passato
inverno gli avea dato il pane”. Il fratello Carlo pure acclamò
Francesco II e disse che sarebbe andato a gridare la stessa cosa in
piazza ed innanzi la farmacia del dott. Salvatore Vergine.
Precisarono, inoltre, che Giuseppe Merenda, fin dal principio del
nuovo Governo, in tutte le occasioni ed in vari luoghi, aveva
acclamato Francesco II e la sua dinastia. Vincenzo Miggiano disse
che Francesco Merenda, fratello di Carlo e Giuseppe, nel primo di
settembre, si era rivolto alla sentinella della Guardia Nazionale
dicendo che voleva calpestare la bandiera che sventolava fuori del
Corpo di Guardia. Il milite era un certo Francesco Marrella che si
trovava a San Giorgio di Taranto.
Tra i vicini abitanti della piazza, solo Carmine Trane, Ferdinando
Negro, Giuseppe Piccioli e Francesco Piccioli, la sera del 20,
avevano sentito numerose voci gridare in piazza “Viva Francesco II.
Viva! Viva! Viva!”.
Luigi Romano, Giuseppe Romano, Giovanni Imperiale e Vitantonio Ria,
segnalati dal sindaco come persone informate dei fatti, giurarono
che la sera del 20, avevano sentito acclamare in piazza Francesco II
e che Giuseppe Guido, tornando da Taranto, aveva raccontato a molte
persone che nei paesi vicini alla città ionica il popolo aveva
innalzato la bandiera bianca con le insegne dei Borbone e che
Francesco II era acclamato in tutte quelle contrade. Il Guido…venne
tacciato di “imprudente” perché aveva raccontato cose che portavano
a produrre male…
Pasquale Miggiano ed altri testimoni (tutti di buona morale e
politica) dichiararono che i fratelli Merenda, Giuseppe Pastore,
Felice Negro e Maria Teresa Calò nutrivano sentimenti favorevoli per
Francesco II; Alessandro Giannini, per ultimo, dichiarò che gli
imputati si erano mostrati indifferenti per il presente e per il
passato Governo. Tutti furono concordi nell’affermare che ignoravano
i sentimenti di Ippazio Malorgio, Stefano Pellegrino e Giuseppe
Guido.
Il 22 novembre 1860, il sindaco di Tuglie inviò al Giudice di
Parabita e al Governatore della Provincia la seguente nota: “Ieri
verso le ore 14 meridiane venni informato di alcuni avvenimenti in
Tuglie la sera precedente consistenti in manifestazioni reazionarie
con grida Viva Francesco II. Nel mese di settembre i fratelli Carlo
e Giuseppe Merenda gridarono “Viva Francesco II” come assicurava
Carmine Marrella a Vincenzo Miggiano. Che pochi giorni dopo entrando
nella bottega di Giuseppe Maria Piccioli il nominato Giuseppe
Merenda gridava agli astanti, tra i quali Vincenzo Miggiano, “Chi
Viva? Andate a farvi fottere voi e Garibaldi! Viva Francesco II e la
sua sacra famiglia!”. Quasi contemporaneamente Francesco Merenda
presentandosi vicino al Corpo di Guardia ove montava Francesco
Marrella di Gregorio, richiedeva a costui chi avesse messa la
bandiera tricolore che diceva voler togliere e calpestare,
minacciando di prendere a calci il piantone. Che stando riuniti
nella bottega di Giuseppe Pisanello i signori Rosario Marzano,
Giuseppe de Matteis, Francesco Rocca e Francesco de Filippo,
entrando Giuseppe Merenda gridava “Viva Francesco II”. Ed ancora,
portata nella ferreria di Sebastiano Meli da un tale Salvatore
Picciolo una bandiera tricolore con la leggenda Viva l’Italia,
avvicinatisi Rosario Marzano, Giuseppe Rocca, Damiano Imperiale e
Vincenzo Miggiano gridavano in unione “Viva l’Italia! Viva Vittorio
Emanuele!” Alle quali grida Giuseppe Merenda rispondeva “Viva chi ha
dato da mangiare questo inverno!” ed il fratello Carlo Merenda
aggiungeva “Viva Francesco II e se mi date un grano per ciascuno
vado a gridare Viva Francesco II vicino alla Farmacia del signor
Vergine!”. La sera poi del 20 novembre verso mezza ora di notte un
numero imprecisato di individui dirigendosi nella bettola di
Ferdinando Greco gridavano “Viva, Viva e finalmente Viva Francesco
II”. In tale comitiva si notavano i fratelli Merenda ed origine di
questo più sensibile movimento era stata la notizia sparsa prima da
un tale Giuseppe Guido, alias Musica, di Tuglie, che in Taranto e
nei paesi vicini si era inalberata la bandiera bianca dei Borbone ed
era giunta truppa devota a Francesco II” .
Dagli atti istruttori e dalle testimonianze raccolte dal Giudice
Barraco alla fine venne accertato il reato di “Attentato per
cambiare il Governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele consumatosi a
Tuglie la sera del 20 novembre 1860 e prima” nei confronti di Carlo,
Giuseppe e Francesco Merenda, Giuseppe Pastore, Maria Teresa Calò,
Felice Negro, Ippazio Malorgio, Stefano Pellegrino e Giuseppe Guido.
Pertanto, il Giudice notificò agli imputati l’atto di citazione,
meno che per Carlo e Giuseppe Merenda che erano fuggiti, e Giuseppe
Guido che era assente. Per questi ultimi l’atto rimase in mano della
forza pubblica. Felice Negro, Giuseppe Pastore e Maria Teresa Calò
furono arrestati e condotti nelle carceri circondariali di Parabita.
Ebbe così inizio il processo a loro carico e dagli interrogatori
eseguiti, soltanto Francesco Merenda e Stefano Pellegrino
risultarono negativi, ma non avevano prodotto alcuna prova della
loro innocenza.
Dal dibattito processuale risultò che Vitantonio Ria aveva promesso
a Felice Negro del vino e del grano quando Francesco II sarebbe
tornato sul trono, e tali suggestioni e promesse avevano provocato
la sua acclamazione al re Borbone; ma i testimoni che egli aveva
prodotto in sua discolpa avevano negato tale fatto ed una volta
messi in confronto avevano continuato a negare. Felice Negro
sosteneva che nella casa dei fratelli Merenda, la sera del 20
novembre, vi era nascosta una bandiera bianca del Borbone, e che
Vitantonio Ria era molto amico dei Merenda. Per questa testimonianza
il Regio Giudice ordinò la perquisizione delle case dei fratelli
Merenda e di Vitantonio Ria, ma non fu trovata alcuna bandiera
borbonica.
Dall’interrogatorio di Ippazio Malorgio risultò che anche Giuseppe
Santese aveva gridato, la sera del 20, “Viva! Viva!”. Dai vicini di
casa venne accertato che Vitantonio Ria era di sentimenti favorevoli
al nuovo Governo e che Giuseppe Santese era indifferente a questo
Governo e a quello dei Borbone. La stessa cosa dichiararono Pasquale
Miggiano, Ercole Piccioli, Cosimo Santese e Pasquale Ferrari, i
quali conoscevano bene il Ria e il Santese.
Completati gli interrogatori, il Regio Giudice di Parabita, non
potendo trattenere presso di sé il processo, il 30 novembre 1860,
trasmise gli incartamenti alla Procura Generale della Gran Corte
Criminale di Lecce, la quale, dopo aver esaminato gli atti
processuali e sentito altri testimoni, con propria decisione del 2
gennaio 1861 contestò agli imputati Carlo e Giuseppe Merenda,
assenti da Tuglie, Felice Negro, Giuseppe Pastore e Maria Teresa
Calò, detenuti nel carcere circondariale, non più il reato di
“Attentato per cambiare il Governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele
consumatosi a Tuglie la sera del 20 novembre 1860 e prima”, bensì
quello meno grave di “Discorsi pubblici tendenti a spargere il
malcontento contro il Governo, commesso in Tuglie la sera del 20
novembre 1860 e prima”.
Dopo questa decisione, con provvedimento del 13 febbraio 1861, venne
stabilito di convertire l’arresto di Felice Negro, Giuseppe Pastore
e Maria Teresa Calò, in mandato di residenza, con l’obbligo di
presentarsi al palazzo di Giustizia quand’era necessario.
Trascorsi alcuni giorni, per effetto del Regio Decreto 17 febbraio
1861 (detto della Sovrana Clemenza), il procedimento iniziato contro
gli imputati di Tuglie venne sospeso.
Con sentenza del 20 febbraio, l’azione penale fu abolita poiché non
esisteva alcuna condanna a carico di Carlo e Giuseppe Merenda e di
Negro, Pastore e Calò: l’abolizione riguardava tutti i delitti
politici commessi sino alla data di pubblicazione del Decreto.
Il periodo di trapasso dei poteri tra la vecchia dinastia borbonica
e quella sabauda fu molto turbolento: i piemontesi erano considerati
usurpatori ed il regime democratico incontrava serie difficoltà a
decollare per l’inesperienza della gente abituata ad essere
governata in maniera paternalistica dal sovrano.
Incidenti, tumulti e voci sediziose si ebbero in molti Comuni del
Salento fino alla fine dell’anno. Moltissimi furono i processi
celebrati dal 1860 al 1865. A seconda della gravità del reato essi
si svolgevano nella Corte d’Assise, nei Tribunali (Gran Corte
Criminale) e nei Giudicati Regi (le Preture).
A Carpignano, un prete reazionario diffuse la notizia che
settantamila soldati austriaci, insieme alle milizie turche, avevano
ricondotto Francesco II a Napoli.
A proposito della condotta del Clero di fronte agli avvenimenti del
1860, bisogna ricordare che al Duomo di Lecce non fu concesso di
cantare il Te Deum in occasione dell’entrata di Vittorio Emanuele a
Napoli.
Il Vescovo di Oria, Mons. Luigi Margarita, fu processato insieme al
suo segretario Pietro Ferretti, per ostentato spirito reazionario e
filoborbonico. Anche il Vescovo di Ugento, Mons. Bruni, fu
processato ed obbligato ad allontanarsi dalla diocesi, che dai
rapporti di polizia era definita “covo di preti e frati reazionari”
.
Contegno ostile nei confronti del nuovo Governo tennero pure i
Vescovi di Gallipoli e Nardò che avevano abbandonato le loro sedi ed
alimentavano di nascosto la reazione a favore del re Borbone. Il
Vescovo Vetta fu processato ed allontanato da Nardò; dovette
rifugiarsi prima a Parabita (domicilio obbligato) e poi a Lecce
presso il Convento dei Padri Bobbisti. Il Vescovo di Otranto, Mons.
Grande, fu sottoposto a misure speciali di polizia, ed il Vescovo di
Lecce, Mons. Caputo, evitò ogni rapporto con le nuove autorità fino
alla morte, ormai novantenne .
Però non bisogna rovesciare sul solo Clero la colpa della reazione
nelle manifestazioni dell’epoca. Bisogna dire che altri fattori
morali, politici, economici e gli stessi errori dei politici
piemontesi fomentarono l’ostilità contro il nuovo Governo. In quegli
anni, fra l’altro, furono appesantite le tasse di registro e di
bollo, mancò l’affrancamento delle decime, fu rimandata la
concessione dei demani e si trascurò l’inizio di importanti opere
pubbliche. Bisogna anche dire che un buon numero di preti si mostrò
favorevole alla politica liberale e al governo dei Savoia.
Nel frattempo l’esercito piemontese terminava l’impresa garibaldina.
Espugnata la città di Capua, si cominciò l’assedio di Gaeta, dove si
era rifugiato Francesco II con la regina ed i resti dell’esercito
borbonico. Bloccata per terra e per mare, bersagliata
incessantemente dalle artiglierie, la fortezza di Gaeta fu costretta
ad arrendersi. Il 14 febbraio 1861 Francesco II, a bordo di una nave
francese, abbandonò per sempre il suo regno e si rifugiò, prima a
Civitavecchia, poi a Roma, ospite di Pio IX. Di là seguitò ancora
per dieci anni a tramare per la impossibile riconquista di un regno,
che non aveva saputo difendere. Il 17 marzo 1861, una legge votata
dal Parlamento decretò per Vittorio Emanuele II il titolo di Re
d’Italia e dieci giorni dopo venne proclamata Roma capitale del
Regno.
Nel 1861, con la proclamazione ufficiale del regno d’Italia, la
situazione in Terra d’Otranto non migliorò. Voci sediziose,
dimostrazioni, incidenti continuavano a turbare la quiete cittadina.
A Surbo, il 13 marzo, alcuni facinorosi sollevarono il paese sicuri
del ritorno di Francesco II. A Poggiardo, il 24 marzo, un gruppo di
reazionari percorse le vie del centro inneggiando al deposto re
Borbone. Questi reazionari cercarono di estendere le manifestazioni
contro il Governo nei paesi vicini, ma il pronto intervento della
Guardia Nazionale di Maglie riuscì a fermare la rivolta. Nel Comune
di Andrano fu distrutto lo stemma sabaudo e fu presa d’assalto la
casa del sindaco e del Capitano della Guardia Nazionale. Atti di
spregio e di prepotenza si verificarono a Vitignano e Cerfignano.
Nella cittadina di Oria, alcuni facinorosi, dopo aver sparso la
notizia che Francesco II era tornato, aizzarono i contadini contro
le autorità costituite . Anche a Taviano e nei paesi vicini la
situazione si manifestò grave. Il 7 aprile 1861, Don Ambrogio Mosco,
un sacerdote che intrigava a favore dei Borbone, organizzò una
dimostrazione contro il Governo servendosi dei fratelli Luigi e
Pasquale Calzolaro, di una certa Maria Boccardi di Matino e di
Emanuele Pizzolo, i quali, nelle prime ore della mattina
avvicinarono uomini e donne che di solito si recavano in campagna,
per convincerli ad uscire di sera e prendere parte ad una
manifestazione. Secondo Don Ambrogio la gente doveva soltanto
acclamare Francesco II. Alle ore 19 ebbe inizio la dimostrazione:
alcuni popolani gridavano, altri guardavano. Un gruppo di ragazzi
giunse in piazza gridando “Viva Francesco! Abbasso Vittorio!”. Il
caso volle che in quel momento giungesse in piazza Generoso
Previtero, sostenitore dei Savoia, consigliere comunale e vice
sindaco, il quale cercò di disperdere quei giovani che urlavano.
Proprio allora giunsero in corteo i dimostranti i quali lo
invitarono più volte a gridare “Viva Francesco II” ma egli si
rifiutò. Il Previtero fu subito circondato e coperto di botte.
Qualcuno cercò di intervenire per mettere fine al linciaggio, ma non
servì a nulla perché il povero liberale nel mezzo della rissa fu
accoltellato e morì di colpo. I manifestanti, lasciando il cadavere
del Previtero a terra, si dispersero, mentre i fratelli Calzolaro
con altri reazionari, si recarono a Racale ed incendiarono gli
stemmi governativi posti sulle porte di due rivendite. Da Racale i
rivoltosi passarono ad Alliste dove furono provocati incendi e
distruzioni. Per l’occasione fu portato in giro un ritratto di re
Ferdinando, trovato nella casa di un certo Generoso Verardi. I
dimostranti obbligarono i cittadini presenti alla manifestazione a
baciare il ritratto del defunto re borbonico. Il giorno seguente
sopraggiunsero i militi della Guardia Nazionale provenienti da
Gallipoli, da Parabita e da Galatone. Giunti a Taviano e nei paesi
vicini, arrestarono molti reazionari ma non riuscirono a catturare
gli accoltellatori di Generoso Previtero che si erano dati alla
macchia. Per quell’episodio criminale fu celebrato un lungo processo
che non approdò a nulla perché nessuno riuscì a stabilire chi
realmente avesse pugnalato il Previtero. Il delitto rimase impunito
e i partecipanti alla rissa se la cavarono con piccole condanne. Don
Ambrogio Mosco fu ritenuto il responsabile morale dell’accaduto e
per la sua costante opposizione al nuovo Governo fu allontanato da
Taviano ed inviato al domicilio coatto .
Anche a Tuglie scoppiò nuovamente la reazione contro il re Vittorio
Emanuele e il nuovo Governo. Il 29 luglio 1861, il Tenente Benedetto
Pesillo, di anni 43, Comandante la Colonna Mobile della Guardia
Nazionale di Nardò, trasmise all’Intendente del Circondario di
Gallipoli il seguente rapporto: “Signore, comunico le informazioni
avute a carico di Giuseppe Merenda da Tuglie, il quale viene
imputato: 1) di avere bastonato ed insultato con parole la effigie
di S.M. Vittorio Emanuele, esistente nella bottega del calzolaio
Carmine Trane, del Comune di Tuglie; 2) di essere apportatore e
detentore di armi proibite; 3) di aver gridato pubblicamente di
notte tempo “Viva Francesco II, abbasso la Nazione, alla quale fra
giorni le taglieremo la testa!”. Per questi ed altri simili
imputazioni che potrebbero risultare dalla istruzione ed esamina dei
testimoni (Giuseppe Imperiale, Carmine Trane, Mario Bellisario,
Damiano Imperiale, Giovanni Piccioli, Giuseppe De Matteis, tutti di
Tuglie), io ho proceduto al di lui arresto, e volendomi assicurare
della seconda imputazione, col sindaco, quale Commissario di
Polizia, in unione del Cancelliere Comunale e due testimoni, ho
perquisito la casa paterna ove egli abita, e non avendo rinvenute
armi, mi ha dichiarato suo padre, a nome Carmine Merenda, che il suo
figlio Giuseppe tiene armi, ma non le conserva in casa, perché si è
giurato che tanto lui, quanto i fratelli, le avrebbero tolte da
casa, in conseguenza delle sue sgridate. Per tali motivi io lo
rimetto a Lei per gli analoghi provvedimenti di Giustizia…” .
Il successivo 1° agosto, l’Intendente di Gallipoli inviò al Regio
Giudice di Parabita la seguente nota: “Signor Giudice, dal
Comandante la Colonna Mobile di Nardò, in Tuglie, mi pervengono due
uffizi, che io originalmente le accludo, perché Ella si levi le
imputazioni addebitate ai due individui segnati al margine (Giuseppe
Merenda ed Epifanio Ciliberti di Tuglie), ora detenuti in Tuglie,
Carceri Circondariali, e che io passo al potere di Lei per procedere
analogamente contro di loro. L’Intendente: G. De Cesare” .
Il Giudice Diomede de Gasparis, ricevuta la lettera, per prima cosa,
volle sentire il Comandante la Colonna Mobile della Guardia
Nazionale di Nardò, il quale dichiarò che il 29 luglio aveva
compilato un rapporto a carico di Giuseppe Merenda da Tuglie
imputato di “Fatti e discorsi di natura da eccitare lo sprezzo ed il
malcontento contro la sacra persona del Re, ed istituzioni
costituzionali”. Aggiunse che i fatti addebitati al Merenda e le
grida di “Viva Francesco II” si erano svolti vicino al caffè della
piazza ed altre botteghe di Tuglie. Il successivo 9 agosto il
Giudice volle interrogare l’imputato che dalla prigione fu condotto
alla “camera degli esami, libero e privato d’ogni legame”.
Giuseppe Merenda di Carmine, 19 anni, domiciliato in Tuglie,
muratore ed analfabeta, interrogato dal Giudice sul motivo del suo
arresto dichiarò che…il 28 del passato mese di luglio, si vide
arrestato dai Nazionali di Nardò e rovistato sopra, e non avendogli
trovato arma di sorta non sa il motivo del suo arresto… Interrogato
sulle imputazioni poste a suo carico rispose di essere innocente
perché i reati addebitatigli erano solo invenzioni di chi gli voleva
male .
Dopo qualche giorno, il Giudice de Gasparis fece notificare un atto
di citazione nei confronti dell’imputato Giuseppe Merenda, detenuto
nelle carceri di Parabita, e dei testimoni Benedetto Pesillo di
Nardò, Giuseppe Imperiale ed altri di Tuglie, con invito a comparire
il 22 agosto, alle ore 12, nel palazzo di Giustizia di Parabita per
trattare la causa. Alla data stabilita, si riunirono nella sala
delle udienze il Giudice D. de Gasparis, il Cancelliere A. Nicazza e
il Decurione Rosario Cherillo, facente funzione di Pubblico
Ministero.
Aperta la pubblica discussione, venne introdotto l’imputato
accompagnato dal suo difensore Luigi Marzo di Gallipoli. Giuseppe
Merenda, interrogato, confermò di essere innocente. Successivamente
vennero chiamati ad uno ad uno i testimoni, tutti presenti, che
confermarono quanto dagli stessi dichiarato dopo l’arresto del
Merenda .
Terminato l’esame dei testimoni, il Giudice invitò il Pubblico
Ministero a trarre le sue conclusioni. Egli dichiarò che mentre gli
constava che l’imputato fosse colpevole di “discorsi di natura da
eccitare lo sprezzo ed il malcontento contro il Governo”, non gli
constava che lo stesso fosse colpevole di porto “d’arme insidiose” o
detenzione delle medesime. Chiese, pertanto, che il Merenda fosse
condannato a sei mesi di carcere ed alla multa di lire cento.
Il Giudice, dopo aver ascoltato la difesa, sospese l’udienza e si
ritirò nella “segreta stanza delle deliberazioni” per emettere la
seguente sentenza di condanna: “…Il Giudice Diomede de Gasparis
condanna Merenda Giuseppe da Tuglie alla pena di mesi quattro di
carcere al quale verrà computato il tempo trascorso dal suo arresto
fino ad oggi, nonché alla multa di lire cento ed alle spese del
giudizio. Assolve provvisoriamente il ripetuto Merenda dalle altre
imputazioni che gli si addebitano. Così giudicato e pubblicato in
Parabita all’udienza di oggi 22 agosto 1861” .
Dopo qualche giorno, il Merenda decise di appellarsi alla Gran Corte
Criminale di Lecce avverso la sentenza che lo aveva condannato alla
pena del carcere. Il 14 settembre l’imputato ottenne di produrre
appello avverso la sentenza con l’obbligo di presentarsi alla
Giustizia sotto cauzione di lire sessanta. La Gran Corte Criminale
si riunì il 5 dicembre 1861 e dopo aver esaminato gli atti
processuali dichiarò l’imputato decaduto dall’appello prodotto ed
ordinò l’esecuzione della sentenza appellata in uno con le spese .
Giuseppe Merenda dovette rimanere nelle carceri circondariali fino
all’espiazione della pena.
A quel tempo le campagne, le masserie ed alcune strade solitarie
della penisola salentina, come la Gallipoli-Lecce, la
Parabita-Collepasso e la Nardò-Avetrana, erano molto pericolose
perché c’era sempre qualche bandito o qualche brigante pronto a
derubarti o a farti la pelle. Spesso si trattava di sbandati
dell’esercito borbonico rimasti senza lavoro e di renitenti alla
leva nazionale che non volevano sottostare alle misure ed alle
punizioni previste dalle ordinanze militari piemontesi.
Nel corso delle operazioni di reclutamento in alcuni Comuni si
verificarono gravi disordini. Molti giovani, in gran parte
contadini, erano contrari a prestare servizio militare sotto i
Savoia. La maggior parte, per sfuggire ai rigori della leva, si
davano alla macchia o passavano nelle file dei briganti che
infestavano le Puglie e la Basilicata.
Il 24 novembre 1861 a Gallipoli avvenne un fatto clamoroso. Nel
pomeriggio di quel giorno, che era domenica, un centinaio di
popolani, di pescatori e di scaricatori del porto, si spinsero in
corteo sino al palazzo del Municipio preceduti dalla bandiera
tricolore e gridando: “Viva la libertà! Abbasso il Municipio! Non
vogliamo la leva!”. Il Sottoprefetto Giuseppe De Cesare, recatosi
sul luogo, riuscì a calmarli e a farli ritornare a casa, ma un altro
gruppo di dimostranti, nei pressi della Sottoprefettura, si scontrò
con la Guardia Nazionale che era stata accolta con grida ostili e
pietre. Il Tenente Giovanni Laviano, Comandante del distaccamento,
visto che i suoi militi stavano per essere sopraffatti, ordinò di
sparare sulla folla che si dileguò lasciando al suolo due morti e
vari feriti .
Con l’inoltrarsi del 1862 si ebbe un notevole incremento del
brigantaggio nel Capo di Leuca, dove non mancarono bande di
malviventi capeggiate da figure passate nella storia dei briganti
meridionali, come Giorgio Solidoro di Gallipoli (Scardaffa), Ippazio
Gianfreda di Alezio (Pecoraro), Rosario Parata di Parabita (Sturno)
e Quintino Venneri di Alliste (Melchiorre). Tra queste bande, si
distinse quella del Venneri che agì principalmente nei territori di
Racale, Ugento, Alliste, Taviano, e quella del Parata che terrorizzò
le zone di Poggiardo, Nociglia e Gagliano.
Ippazio Gianfreda era un soldato sbandato dell’esercito borbonico
che spesso si univa a Quintino Venneri (anch’egli sbandato e
renitente alla leva nazionale) e a Barsanofrio Cantoro, un contadino
di Melissano, per compiere insieme aggressioni, furti, rapine ed
altre imprese criminali. Il Gianfreda fu catturato dai Carabinieri
il 24 dicembre 1863 nei pressi di Ugento e fu condannato ai lavori
forzati che in gran parte espiò nel fortino di Brindisi. Il Venneri,
indiziato d’aver partecipato ad una dimostrazione di sbandati a
Supersano (primi di agosto del 1861), fu arrestato dai Carabinieri e
rinchiuso nelle carceri di Lecce dove conobbe Maria Boccardi che
divenne la sua amante. Uscito di prigione, si dette alla macchia per
compiere azioni di brigantaggio (la più grave fu l’assassinio di Don
Marino Manco, parroco di Melissano, che si era schierato dalla parte
dei Savoia). Il 5 gennaio 1864, una pattuglia della Guardia
Nazionale di Nociglia ed un gruppo di Carabinieri di Poggiardo
scovarono il Venneri e la sua banda nella masseria di Agostino Gnoni.
Era notte fonda e l’improvvisa irruzione dei militari sorprese i
banditi che furono arrestati e condotti nelle carceri di Lecce .
Giorgio Solidoro fu catturato dopo una rapina effettuata ad Oria e
fucilato nella piazza di Francavilla Fontana. Gli altri briganti
fecero, più o meno, la stessa fine: condannati a lunghi anni di
carcere, uccisi nei conflitti a fuoco, fucilati dalle forze
dell’ordine o fuggiti all’estero.
Nell’anno 1862 le manifestazioni contro il Governo continuarono. Del
resto, dopo la conquista del meridione, la maggior parte del popolo
rimase delusa della realtà governativa. L’anno 1860 si era chiuso
senza un nulla di fatto; il 1861 non aveva portato alcun
miglioramento, ed il 1862 si prospettava con ben pochi auspici. Il
Governo non aveva mai preso in considerazione la triste condizione
dei contadini, e quindi non aveva mai adottato provvedimenti per
migliorarla. Ecco, perciò, scatenarsi la reazione singola o
collettiva, violenta oppure feroce, come quella dei briganti.
A Cannole, alcuni contadini che stavano raccogliendo le olive nelle
campagne, per dimostrare il loro disprezzo contro Garibaldi e
Vittorio Emanuele, si misero a cantare concludendo la canzone con
grida favorevoli a Francesco II e a Maria Sofia. A Matino, Luigi
Volpicelli, venditore ambulante, Donato Marsano e Pasquale Villani,
tennero discorsi contrari al nuovo Governo in diversi luoghi del
paese. Il Volpicelli e il Marsano tentarono anche di incitare alla
diserzione alcuni militari . A Parabita, Tommaso Muia, proprietario
terriero, alla testa dei suoi coloni e di un gruppo di agricoltori e
braccianti, si diresse verso la piazza del Castello lanciando grida
contro Garibaldi, Re Vittorio Emanuele e il Decurionato Cittadino .
Ai primi di giugno del 1862, nel Comune di Ruffano si verificarono
alcuni episodi che, per lungo tempo, rimasero avvolti nel mistero.
Il maggiore responsabile di quegli avvenimenti risultò un
concia-piatti di Tuglie del quale non si conosceva il nome.
Tutto cominciò il 15 giugno quando il Giudice del Regio Giudicato di
Ruffano inviò al Procuratore del Re, presso il Tribunale
Circondariale di Lecce, la seguente comunicazione:
Signore,
le sporgo denuncia di un tale Donato Cacciatore di Ruffano da me
ricevuta contro un tale forestiero che si crede di Tuglie ed altri
di Ruffano, e dalla quale si rileva che il primo teneva discorsi
sediziosi, che potrebbero menare allo scovrimento di qualche
cospirazione contro l’attuale Governo. La denuncia è fatta scritta
dal denunciante che aveva conosciuto il forestiero a Tuglie. Ella
disporrà come riterrà di ragione.
Ruffano, 15 giugno 1864 Il Giudice: Domenico De Marinis .
Donato Cacciatore (42 anni, proprietario) aveva dichiarato che la
sera di venerdì 6 giugno girava in paese un individuo forestiero,
che egli riconobbe per averlo visto moltissimi anni prima in Tuglie,
quando frequentava quel Comune per affari. Quel tale, di cui
ignorava il nome, si presentava alle persone con un paniere al
braccio, nel quale portava un trapano e del ferro filato che stavano
ad indicare il mestiere di concia-piatti, o cucitore di vasi di
argilla spezzati. Donato Cacciatore aggiunse che il forestiero, a
notte avanzata, si recò nel trappeto di Don Antonio Licci, dove lo
attendevano Eliseo Panico, Angelo Solidoro, Salvatore Mele, Zaccaria
Costa e Don Cesare Mariglia, per discorrere in segreto con lui. Il
concia-piatti, fatto cerchio di quella gente, raccontò che veniva
dai confini di Roma; che dovevano essere contenti perché più di
centomila briganti propugnavano la causa del re Borbone; che egli
era in giro, non per esercitare il mestiere di concia-piatti, ma per
accrescere il numero dei proseliti di Francesco II; che era atteso
da altri compagni alla punta di Leuca dove stavano per arrivare due
navi cariche di gente armata pronta ad invadere la Provincia di
Terra d’Otranto; che non dovevano temere le spavalderie dei
liberali, ma dovevano essere pronti alla chiamata che presto sarebbe
stata loro fatta. Questo ed altre cose raccontò il forestiero nel
trappeto di Don Antonio Licci e tutti i presenti si complimentarono
con lui e gli offrirono vivande e vino. Dopo di che il forestiero
uscì dal trappeto e si allontanò in silenzio .
Il Giudice De Marinis, eseguiti gli accertamenti del caso, rinviò a
giudizio per “Discorsi sediziosi contro l’attuale Governo avvenuti
il 6 giugno 1862 in Ruffano” : un concia-piatti di Tuglie, del quale
non si conosceva il nome, Eliseo Panico, Generoso Panico, Giuseppe
Antonio Panico, Angelo Solidoro, Zaccaria Costa, Don Cesare Mariglia,
Pasquale Solidoro, tutti di Ruffano (fuori del carcere).
Dopo alcuni giorni, gli imputati furono citati a comparire innanzi
al Giudice per essere interrogati sulle relazioni intercorse e sui
discorsi fatti con l’ignoto forestiero. Vennero anche invitati ad
indicare il nome ed il luogo di residenza del concia-piatti che
veniva trattato con tanta intimità.
Nello stesso tempo furono invitate le autorità competenti di
svolgere accurate indagini sul forestiero che risultava essere di
Tuglie.
A tal proposito, la mattina del 17 luglio, il Giudice De Marinis
interrogò Giambattista Petruzzi fu Vincenzo di anni 45, nato in
Tuglie e domiciliato a Ruffano, ammogliato, bracciante (bracciale) e
nulla tenente, il quale rilasciò la seguente dichiarazione: “Benché
nativo di Tuglie, da circa venticinque anni domicilio a Ruffano ove
ho fatto continuamente dimora per essere stato al servizio di
diverse persone in altri paesi, così non conosco il concia-piatti di
Tuglie che nei primi giorni di giugno stette in Ruffano. Ignoro con
quale intenzione costui, mentre io stavo in piazza, si presentò a me
per essere mio paesano e disse di chiamarsi Cosimo Imperiale, senza
darmi altre indicazioni. Mi trattenni pochi minuti con lui,
dimandando notizie sui miei parenti di Tuglie. Lo invitai a venire a
casa mia, ma si rifiutò, adducendo che avrebbe pernottato nel
trappeto Licci. Erano le ore 23 circa quando parlai con l’individuo
ed egli non era in compagnia di altri. Da quel momento non l’ho più
visto. Non lo avevo mai visto in passato” .
Il Giudice Regio di Parabita, dopo avere espletato accurate ricerche
in Tuglie e dintorni, comunicò al collega di Ruffano quanto segue:
N° 109 di Prot. 26 agosto 1862 Al Giudice del Mandamento di Ruffano
Signore, in Tuglie non vi è individuo concia-piatti per nome Cosimo
Imperiale. Avvi un concia-piatti a nome Gaetano Notaro, nato in
Galatone, da molti anni domiciliato in Tuglie, persona perbene. I
connotati di questo individuo non corrispondono punto a quelli
segnati nel di Lei Uffizio. Epperò deve ritenersi che la persona di
cui si cerca sia tutt’altra dell’indicato Gaetano Notaro. Son questi
i risultati delle indagini da me prese e che io passo a di Lei
conoscenza.
Il Supplente: Raffaele Ferrari
Verso la fine di marzo del 1863, il Giudice di Ruffano, Salvatore
Aprile, invitò gli imputati a comparire personalmente nel suo
ufficio, la mattina del 14 aprile, per essere interrogati sulla
imputazione ascritta: “Discorsi tendenti ad eccitare lo sprezzo ed
il malcontento contro la Sacra Persona del Re e le persone della
Reale Famiglia e contro le istituzioni costituzionali avvenuti in
Ruffano il 6 giugno 1862”.
Prima che scadessero i termini di legge, il Giudice Aprile trasmise
gli atti processuali alla Corte d’Assise di Lecce, che era
competente per lo svolgimento del processo.
Ai primi di marzo del 1864 ebbe inizio il processo e dopo varie
sedute ed ampie discussioni, il Pubblico Ministero presentò alla
Corte la seguente richiesta:
…Il Pubblico Ministero, veduti gli atti a carico di Cosimo Imperiale
di Tuglie, Eliseo Panico, Gennaro Panico, Giuseppe Antonio Panico,
Angelo Solidoro, Zaccaria Costa, Cesare Mariglia, Pasquale Solidoro,
tutti di Ruffano;
Veduto il Decreto Reale del 17 novembre ultimo, col quale sono state
abolite le azioni penali, e condonate le pene: 1) per reati politici
qualora non siano accompagnati o connessi a reati di brigantaggio, o
ad altri crimini contro le persone, le proprietà e le leggi
militari; 2) Per reati di stampa perseguibile d’ufficio; 3) Per
reati di resistenza alle Leve, purché i renitenti si siano
volontariamente presentati; 4) Per reati forestali; 5) Per le
contravvenzioni alle leggi della Guardia Nazionale…
Atteso che il reato previsto è compreso nella categoria del n.1,
art.1, e rimonta a tempo anteriore alla pubblicazione del
sopracitato Regio Decreto;
Chiede
che la Corte dichiari abolita l’azione penale a carico dei predetti
individui per le sopra espresse imputazioni.
Lecce, 12 marzo 1864. Il Pubblico Ministero
La Corte d’Assise di Lecce accolse la richiesta e pubblicò la
sentenza definitiva in data 21 maggio 1864 prosciogliendo tutti gli
imputati dal reato che li aveva visti come protagonisti nel
Tribunale di Lecce.
Nel Comune di Ruffano, di quel processo non si parlò più, però il
mistero del concia-piatti di Tuglie, comparso improvvisamente in
paese per diffondere discorsi sediziosi contro il Governo di
Vittorio Emanuele II e poi sparire nel nulla, senza lasciare traccia
della sua vera identità, non fu mai risolto.
Dopo il 1862 le manifestazioni filoborboniche divennero sempre meno
frequenti: l’autorità costituita, pur intervenendo con fermezza per
il rispetto delle leggi, cominciò a praticare la politica del
perdono e della clemenza. Fu così possibile ricondurre gli ultimi
scalmanati al riconoscimento del nuovo ordine.
Dal 1865 in poi la Provincia di Terra d’Otranto poteva finalmente
dirsi libera dai residui di una reazione che ormai apparteneva al
passato.
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