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Tuglie...per raccontar paese...Enzo Pagliara e la sua Montegrappa anni '50
Vi racconto: Montegrappa anni 50

La "villeggiatura dei tugliesi negli anni "50 era ancora soltanto di tipo rurale; le "macche" facevano la parte del leone, con le loro centinaia di "furneddhi", isolati o a grappolo. Da qualche anno, esattamente dal 1948, pochi "privilegiati" potevano godere la loro villeggiatura nelle casine che, in stile architettonico spontaneo o pseudo liberty, avevano fatto costruire sul brullo costone roccioso al nord del paese, patriotticamente denominato Montegrappa.

Ai primi anni cinquanta, le casine "storiche" della località collinare erano non più di una ventina, delle quali la maggior parte tuttora esiste, anche se a qualcuna sono state apportate aggiunte e a qualcun'altra avvilenti modifiche; questi villini permettevano agli abitanti una permanenza più lunga, fino ad autunno inoltrato, un po' per la maggiore disponibilità di spazi, ma anche per la struttura meno precaria rispetto ai capricci del tempo. E poi perché i lunghi e larghi viali, già tracciati anche se appena sterrati, permettevano una facile circolazione ai pur pochi automezzi che vi salivano dall'unica "arteria" costituita dalla salita della "Croce". Per noi ragazzini i quattro mesi a Montegrappa erano lunghi, interminabili, alienanti; dal lunedì al sabato, giornate tutte uguali: giochi e giochi, un po nel boschetto e un po nella pineta, come convenzionalmente si intendevano, il primo a destra della gradinata centrale, la seconda a sinistra, con all'interno il sacello ai Caduti. Si scavavano buche per trappole, si costruivano fortini per i primi soldatini di plastica, si giocava con le prime figurine dei calciatori Panini. Talvolta ci si spostava in gruppo verso la grandissima e frondosa "carruba", sotto la cui ombra le ragazze da marito erano intente a ricamare o a cucire. A mezzogiorno, tranne che nei giorni di tramontana, arrivava l'eco della sirena della Piazza, e tutte le compagnie si scioglievano, per ricomporsi dopo la "siesta", ancora per qualche ora. L'Avemaria, rintoccata prima dalla campananella issata sotto un'arcata laterale, successivamente dalla campana del campanile, raccoglieva la gran parte dei villeggianti per il rosario di (don) Emanuele Pasanisi. Il rientro per la frugale cena segnava l'inizio della lunga, buia, silenziosa sera-notte di Montegrappa, interrotta, di tanto in tanto, dalle allegre brigate di giovanotti che davano sfogo alle loro abilità canoro-musicali sulla fisarmonica e sulla chitarra al chiarore lunare, seduti sui parapetti del piazzale. E per i ragazzini? I lunghi racconti dei nonni e degli amici dei nonni, i quali dopo la cena si riunivano per qualche ora ancora, fino al momento della buona notte. Ne avevano "fatti" da raccontare Mesciu Rocco Nocera il più anziano dei nonnini, Camillo Calò con i baffoni alla ceccopeppe, Don Pippi Vergine "te la Posta" personaggio eduardiano, Biagio "fermijanu" sosia di Oliver Hardy, il "suturnu" Cosi Quintana, il "sottile" Luigi Bacile, e i "cimantusi" Mesciu Nino, Mesciu Giovanni e, naturalmente, Mesciu Vincenzo Miggiano: la grande guerra del '15-18, l'avvento del fascismo e la loro militanza o simpatia, la campagna in Abissinia e mille altre storie, storielle e "culacchi" di vecchi tugliesi di spicco, o poveracci. Qualche sera dopo cena seguivamo i nonni che andavano a farsi la "passatella" da Mesciu Sebastiano De Salve, dove la figlia Stinella gestiva una botteguccia di alimentari e di mescita. Il cortile antistante era "rischiarato" da lampade a gas, molto più luminose dei "petroji" che tenevamo nelle "ville", uno per tutta la casa. Alla botteguccia si acquistavano quotidianamente le "venti lire" di ghiaccio che rinfrescava l'acqua e il vino del pasto meridiano. I mesi di giugno e luglio sembravano avere la durata di ere geologiche; poi il viavai dei carretti che trasportavano povere masserizie verso i furneddhi delle "mute terre" ti faceva capire che agosto era alle porte. Subito si mettevano in moto i preparativi per la festa della Madonna di Montegrappa: arrivavano le luminarie, la cassarmonica, e per qualche giorno si sentivano i martellamenti per issare i pali, rumori che "beneficamente" interferivano con l'alienante, assordante gracidio delle cicale.
 

Terminati gli addobbi, un lungo e grosso cavo nero, a mo' di serpentone, collegava il piazzale alla cabina elettrica vicino al Calvario. Tutto il giorno del primo agosto, l'equipe di Gaetanino Cuppone era intenta a sistemare le trombe dell'altoparlante che, dopo una giornata di fischi a scariche, finalmente la sera permetteva di seguire il Triduo anche a distanza dalla Cappella, sempre tra qualche fischio e qualche scarica.

Nella stessa mattinata arrivava l'inviata speciale del Dottor Vergine, Mescia Lucia Bacile, la quale portava la biancheria da lei stessa ricamata per l'altare e, aiutata da altre donne pie, metteva ordine e lustrava la Chiesa per le imminenti funzioni religiose. La mattina del 3 tutte le vedove di guerra, capeggiate dall'arzilla Domenica Petruzzi, assistevano alla messa con "l'ufficiatura" in suffragio ai Caduti, celebrata dal nuovo arciprete don Nicolino, da don Vito e da don Nicola. L'ufficiatura aveva il ritmo e il sapore antico ed esotico di una funzione di rito greco-ortodosso. Terminata la celebrazione, il pavimento antistante il vecchio altare in leccese e il Sacrario dei Caduti si riempivano di lumini che le vedove accendevano per voto alla Madonna e ai loro defunti. La sera l'intorciata si snodava lungo i viali ancora poco alberati - negli anni quaranta la processione partiva dalla Chiesa Madre - tra il crepitio e lo sfavillio delle fontanelle di bengala colorate, che i pirotecnici Venuti preparavano per l'occasione a poco meno di un centinaio di lire ciascuna. Le signorine Nocera e Mescia Concetta "te lu tabacchinu" appendevano tra un albero e l'altro una teoria di lampioncini cinesi, illuminati da un tozzo di candela. All'alba della festa, alle quattro, il mattiniero Don Vito, immancabilmente, celebrava la prima messa; altre poi seguivano fino alla messa cantata dell'Arciprete. Le noccioline, la scapece e soprattutto le "banane", i "pinguini" e gli spumoni Provenzano, mezzi sciolti, connotavano, allora come ora, la festa di Montegrappa. Un fuoco pirotecnico, fatto esplodere all'imbocco del "tajamentu", chiudeva definitiva mente la festa, la notte tra il 4 e il 5 agosto. Dopo la festa, ricominiciava il grigiore assolato delle giornate di Montegrappa, ravvivato di tanto in tanto da qualche matrimonio in Cappella, e dalle scampagnate dei fratini del seminario serafico di Sansimone. Passata la festa della Madonna delle Grazie, si cominciavano a rivedere i carretti che riportavano le masserizie dei "furneddhari" in paese; inesorabili scoppiavano i temporali che allontanavano sempre più la calura agostana, e per i Santi Medici, al massimo per San Francesco, anche per i villeggianti delle casine terminava il soggiorno in collina, e per Montegrappa ricominciava quell'isolamento, quasi letargo, fino all'estate successiva. Alla fine degli anni cinquanta si installò la rete elettrica e per Montegrappa iniziò una nuova epoca: arrivò la televisione "pubblica" di Vito Pastore, la quale permise di trascorrere serate estive meno tediose e, con la scusa della consumazione di un peroncino o di un'aranciata fresca, si potevano seguire le puntate di "Arsenico e vecchi merletti" o di "Una tragedia americana". Poi negli anni '60 arrivarono i registratori e i mangiadischi che sostituirono chitarre e fisarmoniche e i "vitelloni" tugliesi residenti, o di rientro per le vacanze, poterono ballare "cheek-to-cheek" le canzoni di Mina e di Peppino di Capri sulla terrazza di Don Pippi Vergine, di villa Pastore, ecc., ecc. Mi scuso: con coloro ai quali avesse recato noia questo "romantico" amarcord; con le persone, ormai brizzolate, per la citazione non preventivamente autorizzata; e, soprattutto con gli Elisi, per averli irriverentemente "destati", ma con sincera benevolenza, dal loro eterno silenzio.
 

Enzo Pagliara

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