“La festa in bocca”
di Azzurra De Razza
giornalista Telenorba
La festa in bocca. Né sacro né profano. C'è anche un sapore a parlar
devozione. Prima ancora è profumo. Correggo, è celebrazione nell'aria.
E' fragranza, che invade le vie, tra bancarelle e luminarie, tra la
piazza e la fiera, dopo la messa e prima della processione ma
soprattutto durante. Durante tutto. E, oggettivamente, distrae. Perché
invade e pervade. Frittura della festa. Purpette. Tuglie, come una
grande padella di olio bollente, frigge. Tradizione nelle case che
diventano tappe della processione gastronomica, santa e profana. Vai e
vieni. Un giro alla fiera a cercare li puricini beddhi e poi trasi a
casa te la zzia Maria. Torna in piazza ca sona la bbanda e ti chiama
Mescia Cetta. Comu suntu 'ste purpette? Non rispondere! Che sei già
entrato nel rito della gara non ufficiale del "chi le fa più buone". E
il giro è ancora lungo. In mezzo c'è l'Annina. Anzi, c'è la cantina te
l’Ucciu che è suo marito, aperta agli avventori, passaggio obbligatorio.
Non dico altro. Non è ancora mezzogiorno ed ho mangiato venticinque
polpette. Le trombe della banda annunciano l'uscita della Madonna. Seguo
la processione e sento la festa in bocca. Ci sono ancora i fuochi da
vedere susu la lambia te l’Ucciu. Prima devo pure comprare le nuceddhe
però. Per le giostre e la banana te lu Provenzanu aspetto la sera. Altro
giro, altra corsa. Ora c'è ancora il pranzo. Quello era l'antipasto. La
festa adesso me la mangio. Siamo diciannove a tavola. Le portate ancora
di più. Abbondanza. Quello che rimane...torno domani?
"Una sola Festa"
di Massimo Negro
cultore delle tradizioni popolari.
Non erano i pali bianchi e rossi lungo le strade e intorno alla piazza a
farci attendere il suo arrivo, anche perché spesso tirati su con largo
anticipo. Erano i camion e le roulotte che comparivano sotta ‘llu
piazzale a farci capire che ormai era solo questione di giorni, se non
di ore. Arrivavano le giostre. Arrivava la Festa te la Matonna.
Le giostre con la loro musica sparata a tutto volume, rappresentavano la
naturale evoluzione delle macchinine e dei robot comprati da piccolo
alle baracche poste tornu tornu la chiazza. Gli amici di mio nonno
vedendomi arrivare gli davano di gomito dicendo “Sta ‘rria napotuta!”. E
mio nonno sorridendo si preparava a metter mano al portafoglio.
Negli anni dell’Oratorio la festa era anche la splendida processione
della mattina. La Madonna che usciva parata a festa dalla Chiesa sulle
note della Marcia di Radetzky, con i chierichetti che si tiravano su la
tonaca e si divertivano saltellando a ritmo di musica. Ma era anche
un’occasione profana per fare un viaggio attraverso i profumi e gli
odori della tradizione culinaria tugliese nel giorno di festa. Una
sintesi di profumi te carne allu sugu e de purpette via via crescente,
incalzante, quasi a tirar la giacca ai mariti per conto delle mogli per
farli tornare a casa man mano che ci si approssimava a mezzogiorno. Un
profumo che si spandeva per le strade distraendo dalle preghiere.
La sera sotto le mille luci te la parazione, la banana sanciva la tregua
con l’inverno, lasciando il posto alla bella stagione. Era il primo
gelato dopo la lunga pausa invernale.
La festa non poteva finire se non si ascoltava il Bolero di Ravel in
Piazza con in mano na busta de nucceddhe e pronti a farci fuori un pò di
scapece che compravamo per l’occasione.
La Nunziateddha. Non so voi, ma ancora oggi a ricordare quel giorno mi
compare nei miei ricordi quella grande distesa te patelle, te piatti, te
scarpe poggiate sulle scatole e sui cartoni per terra ovunque per tutta
la piazza davanti al monumento dei Caduti.
Poi gli anni dell’Università a Milano e successivamente il lavoro in
giro ovunque per multinazionali. Ma ogni anno c’è un appuntamento che in
agenda non può mancare. Uno solo. Una sola Festa. La Festa te la Matonna.
Da studente, invischiato in letture disorientanti e fantasie
cosmopolite, scelsi di prendere le distanze dalle tradizioni nelle quali
ero vissuto e che mi avevano disegnato. Liturgie, stradine, riti,
abitudini, ritmi ristretti e ripetitivi che non si accordavano ai miei
sogni chissà quanto cosmici. L’avrei fatto prima nell’animo e
successivamente scappando verso altri orizzonti.
Ricordo che in quegli anni mi trovai a parlare di questo con Enzo
Pagliara. Gli dicevo un po’ invasato che queste feste patronali, i riti,
le tradizioni sarebbero scomparse, sarebbero state inghiottite dalla
modernità. Enzo guardava intensamente una statua di cartapesta. Senza
scomporsi mi rispose: “Queste tradizioni, che a te forse sembrano
minuscole, hanno resistito a guerre, a rivoluzioni. Non credo che
verranno meno. Ne abbiamo bisogno.” Ci ho ripensato quando Gianpiero mi
ha chiesto di scrivere quattro parole per la festa. Ripensai a quelle
parole anche quando dalla Colombia, a migliai di chilometri di distanza,
la prima volta, chiesi a mia madre stupita: “Comu è sciuta stannu la
festa te la matonna?”. E ripensavo, confondendo tutto insieme, al tagatà
e alle ragazzine e a mio padre che mi fece assaggiare la prima volta la
scapece e a mio nonno che infilava ritualmente l’offerta nella cassetta
in piazza e alle noccioline e a tante altre cose. Enzo aveva ragione. La
sua previsione era esatta, visto il nuovo entusiasmo intorno alla festa
patronale. Ma ciò che più conta è che sono felice che io avessi torto.
“Nu core te cupeta”
di Gianpiero Pisanello
giornalista
Chissà se anche Almerico Montedragone, cavaliere di Sulmona al servizio
di Carlo d’Angiò, donò alla sua giovane amata Riccarda Maramonte,
sorella di Ruggiero che sposò nel 1274, “lu core te cupeta”, ossia un
dolce a forma di cuore realizzato con mandorle tostate e zucchero
caramellato che i giovani regalavano alle fidanzate. Un dolce tipico “te
la Nunziata”, prima ancora della “banana gelato”, che si trovava sulle
tante bancarelle che affollavano l’antica fiera. Tradizione voleva che
proprio il giorno dell’Annunziata, i giovani regalavano alle fidanzate
questo dolce come pegno e promessa d’amore. Si giungeva da tutto il
Salento per compiere questo rito. E mentre la statua passava tra le
contorte stradine “te la Croce” o “te lu Lavitu”, i giovani
ufficializzavo il loro amore, sotto la protezione “te la Nunziata” in
piazza Garibaldi. Fantasticando, non credo proprio che Almerico
Montedragone compì nei confronti della sua amata questo gesto. Abile
condottiero, aveva tutt’altro a cui pensare. Ma noi tugliesi,
immaginiamo che l’abbia fatto e soprattutto lo ringraziamo per aver
portato a noi il culto nei confronti della Madonna Annunziata. Da
Sulmona era partito per le Crociate, combattendo valorosamente sotto le
mura di Gerusalemme, insieme a Riccardo Cuor di Leone. Per i meriti
conseguiti, Carlo d’Angiò lo nominò “visore” di tutta la Puglia e
Signore del Casale di Tuglie, incarico, questo che lo rese
particolarmente lieto perché poteva finalmente coronare un sogno: far
conoscere la magnificenza dell’Annunziata e farla venerare in un altro
paese lontano dalla sua Sulmona. Egli giunse così nella nostra Tuglie
senza soldati, senza armi, senza ricchezza e così si presentò ai nostri
antenati i quali, con grande fervore, accettarono la devozione per la
Vergine che da quel momento divenne patrona del nostro paese. E tra
tutte queste peripezie l’aitante e valoroso condottiero poteva mai
pensare a “nu core te cupeta”?
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Tuglie...per raccontar paese...
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