Se n’è andato un amico, un caro e fedele amico, nel
declinare di questa estate 2007, grave e rovente. S’è
confuso il suo riso chiaro, la sua solare fisionomia nel
cielo smangiato dalla luce troppo forte, quella luce decisa
che egli amava e faceva irrompere nelle sue opere. Se n’è
andato in cerca dei suoi morti, laggiù, dove affondano le
radici degli ulivi; o sugli steli del grano, sulla maturità
delle viti nell’imminente vendemmia. Se n’è andato a
riprendere possesso di quella terra che ha sempre amato, del
suo prosciugato splendore, dei suoi succhi segreti, della
sua ispiratrice aridità.
Gli abbiamo voluto bene per la sua semplicità, per la sua
schiettezza, per la sua passione del fare, del ricercare,
dell’arrovellarsi intorno a un’invenzione, ad un’intuizione.
Gli abbiamo voluto bene per la sua ansia di comunicarci le
sue piccole scoperte, le sue immaginazioni avvincenti, i
simboli in cui amava tradurre il suo mondo interiore. C’era,
in Silvio, una virtù dimenticata: una letizia contagiosa,
una ammaliante capacità di farti sentire come reale e vivo e
vicino ciò che poteva sembrare irreale e morto e lontano.
Della sua opera abbiamo parlato in più occasioni: per
Pantaleone nel mosaico di Otranto, per la civetta-simbolo
della sua terra e della sua pittura, per il rutilante
scampanare dei suoi colori, per la delicatezza di certi
passaggi tonali… Ma quello che di lui ci rimane soprattutto
è la parola, felice di comunicarsi e di farsi sentire amica;
e la capacità di condivisione di tutto ciò ch’è bello, che
riporta, attraverso anni e secoli, a una fisionomia antica
di questa terra: quella fisionomia che i secoli non hanno
cancellato.
Silvio ha dissodato, nell’incanto della sua campagna, il
senso della nostra vita comune, della nostra comune
appartenenza. Per questo sappiamo che vivrà nella nostra
mente, nel nostro cuore: sempre.
03 settembre 2007 |
Luigi Scorrano |
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