Mi
appariva invulnerabile e bastava che mi guardasse per convincermi che non
esistevano cose che non sapesse fare. Era forte e rassicurante mio padre, e da
ogni suo armeggiare qualcosa prendeva sempre vita.
Nelle giornate di pioggia modellava il legno dell’ulivo con un’ascia per
ricavarne oggetti d’ogni tipo senza però violentare la forma del legno
originario. Prima ancora che facesse alba preparava la sua colazione a base di
pomodori saltati nell’olio bollente e peperoncino e mi lasciava sempre una
porzione generosa che spalmavo nel panino.
Mi raccontava sempre, con lo sguardo che sprofondava nei suoi ricordi, aneddoti
su mio nonno, come tanti emigrato in America nei primi anni del novecento in
cerca di fortuna.
Raccontava … ed io mettevo le storie una accanto all’altra come fossero puzzle
per costruire il mondo che non avevo conosciuto. Vedevo le navi attraccate
all’isola delle lacrime “Ellis Island”, l'isolotto nella baia di New York, primo
contatto con l'America di quanti cercavano fortuna. Io davo corpo alla speranza
nei volti immaginati di tanta umanità che conservava in ogni cuore un pezzo
della propria terra.
Raccontava tanto mio padre, quando era di vena giusta, e spesso ripeteva le
stesse storie ma mi piaceva sentirmele raccontare ancora.
Aveva paura che mi accadesse qualcosa quando, negli anni di piombo, la passione
politica mi faceva ardere al punto di perdere ogni prudenza. “Non lo cambierai
tu il mondo” mi diceva per farmi desistere quel tanto che bastava per
preservarmi e immaginarmi più al sicuro.
Quante sere a discutere con lui sullo sfruttamento della gente e sulla
rivoluzione che a me sembrava così alla portata.
“Sono dalla tua parte” insisteva “ma non lo cambierai tu il mondo” e risentito
da tanta millantata sicurezza aggiungeva quasi sempre “quelli come me non sono
fessi ma sono costretti a fingere di esserlo”.
Quando me ne andai lo sapeva che sarebbe stato per sempre e seguiva i miei gesti
mentre preparavo la valigia. Non parlava mai mio padre in certe circostanze; si
limitava a guardare senza dire nulla. Gli occhi luccicavano ma lasciava l’onere
del pianto a mia madre che era più portata.
Solo nell’abbraccio affidò la sintesi di ogni sua emozione e di ogni sentimento.
Sapeva che l’avrei capito e che non erano necessari fronzoli melensi per
sottolineare l’ansia del distacco.
Mio padre era un uomo riservato. Neppure quando si ammalò gravemente ebbe alcun
cedimento e conservò la dignità incontaminata.
Scelse di non parlare della sua malattia e proprio quando non ci riusciva a far
finta di nulla, andava in motorino nella sua campagna a confidare le sue paure
al suo ulivo preferito.
Ai miei figli trasferì un affetto meno controllato e si lasciò andare con
cedimenti che io non ho mai conosciuto e mi piaceva osservarlo anche quando il
gioco era oggettivamente imprudente.
Scalava gli ulivi con abilità da contorsionista e legava Paolo con una corda
robusta per tirarlo su queste piante secolari; lo scorazzava in motorino senza
alcuna misura di prevenzione e io fingevo di arrabbiarmi ma osservavo questo
padre inedito cambiare repentinamente nel ruolo di nonno.
Quando veniva a trovarmi a Milano restava ore ad osservare il Ticino in piena e
invidiava la Lombardia per l’acqua che non avrebbe mai avuto per la sua
campagna.
Raccontò dei sintomi che lo tormentavano da tempo, il giorno di Pasqua del 1990
dopo il solito fragore dei canti improvvisati della mia famiglia. Capimmo subito
che era una cosa seria ma lui, col sorriso sornione, disse di non preoccuparci
che “l’erba cattiva non muore mai”.
Il paragone era fuori luogo e lui morì l’ultima domenica di ottobre dello stesso
anno, in un giorno che sembrava ancora primavera.
Mi manca ancora mio padre ma in prossimità del suo compleanno che condivideva
con mio fratello, mi manca un po’ di più. Ogni giorno però c’è sempre qualcosa
che lo fa rivivere nelle cose che faccio e non so se lui mi guarda ancora in
silenzio con quegli occhi densi d’espressione. Ci sono momenti che sento però
ancora forte i suoi rari abbracci.
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Tuglie...per raccontar paese...
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