Coppola rossa, bandiere a tre colori, ‘nnocche e ‘nzagarelle
Presentazione del libro
“Coppola rossa, bandiere a tre colori, ‘nnocche e ‘nzagarelle”
Comune di Tuglie - Giovedi, 12 Marzo 2009
Intervento dell’autore Gerardo Fedele
Un doveroso ringraziamento al Sindaco Prof. Daniele Ria che, ancora
una volta, si è rivelato Persona capace e sensibile verso ogni tipo di
espressione culturale. Manifestando la più ampia disponibilità al Patrocinio
del volume, l’Amministrazione Comunale di Tuglie, con la presentazione di
questa sera, cerca di mantenere vivo l’interesse conoscitivo dei fatti
avvenuti nel nostro piccolo paese, sul finire del ‘Settecento, di cui prima
d’ora se ne ignorava l’esistenza. Fatti analoghi al nostro si sono svolti in
quasi tutti i Comuni della Provincia di Terra d’Otranto, il cui territorio è
individuabile pressappoco nell’attuale Salento.
Allo stesso modo ringrazio il Presidente della Società di Storia Patria per
la Puglia, Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie, Dott. Dario Massimiliano
Vincenti, per essersi mostrato entusiasta dopo la lettura della bozza
definitiva del volume e favorevole a patrocinarne la pubblicazione. La sua
presenza tra noi questa sera, estremamente gradita. Il suo intervento sarà
certamente motivo di arricchimento culturale.
Sono altrettanto grato al Dott. Giuseppe Miggiano. Come avete sentito
dalla voce del narratore dott. Donato Chiarello, la sua partecipazione è
dovuta principalmente al suo antenato Matteo Miggiano, piacevolmente
ritrovato Sindaco di Tuglie, di cui se ne erano perse le tracce e che ne
riparleremo più avanti, ma anche perché si è sentito attratto
dall’intrecciarsi di quei fatti e della gente che li ha subiti o provocati
in ogni angolo del Regno dei Borboni, da Napoli a Lecce, da Reggio Calabria
a Ostuni, da Gallipoli a Tuglie… chissà se un giorno, dalla fantasia di quel
bravo regista quale Egli è, ci potrà regalare una sua gradevole pièce
teatrale. Una piccola curiosità: il papà ed il primogenito di Giuseppe si
chiamano entrambi Matteo Miggiano, così come il suo ascendente primo
cittadino.
Un sentito ringraziamento, infine, va al Senatore Giorgio de Giuseppe,
uno degli Uomini politici più importanti del Salento, caratterizzato da una
Sua personalissima nobiltà d’animo, semplice, disponibile con tutti e sempre
vicino alla gente e ai Suoi elettori. Quella di chiederGli di presentare il
mio libro era un’idea che mi portavo appresso da qualche tempo, ma più di me
l’avrebbe voluto mio padre. Ne sarebbe stato veramente felice. Sono
orgoglioso di esserGli amico, specie ora che la Sua presentazione ha
impreziosito il mio libro.
Ne sono veramente onorato. Grazie Senatore.
Ma ora veniamo al suo contenuto. Una cosa mi ha sempre incuriosito: sapere
ciò che accadeva a Tuglie, il mio paese, contestualmente e successivamente
ai grandi eventi narrati nei libri di storia.
Sapere come si svolgeva, per esempio, nel ‘Seicento la vita quotidiana di un
ricco proprietario terriero, di un agrimensore o quella della famiglia di un
massaro o di un contadino tugliese; come e cosa mangiavano i nostri
antenati, ma anche come si vestivano; come venivano costruiti e come si
arredavano i palazzi, le case o gli antri e le catapecchie.
Chi di noi non ha desiderato sbirciare e osservare da un angolino, se mai
fosse possibile, ciò che succedeva nella nostra comunità all’indomani della
scoperta dell’America, oppure se il Rinascimento sia mai passato da Tuglie,
oppure ancora, quali stravolgimenti si siano avuti tra gli abitanti di
Tuglie durante e dopo la Rivoluzione Francese?
È proprio su quest’ultimo clamoroso avvenimento di portata mondiale, per
tanti versi chiuso in una fitta nebulosa e non ancora esplorato fino in
fondo, che ci soffermeremo, in quanto qualcosa nella nostra comunità è
successo davvero.
Nel 1999, in occasione del bicentenario della Repubblica Partenopea è stata
pubblicata da Congedo editore, la ristampa fotomeccanica del libro “I Rei
di Stato Salentini del 1799”, di Nicola Vacca, con prefazione di Mario
Agrimi. Scorrendo quelle pagine è stato emozionante scoprire che anche a
Tuglie si erano avuti gli strascichi conseguenti alla Rivoluzione Francese.
Come sapete, dopo i sanguinosi fatti di Parigi e dopo vari accadimenti, tra
il 1797 e il 1798, vennero proclamate, una dopo l'altra, la Repubblica
Ligure, la Repubblica Cisalpina e la Repubblica Romana, tutte filo-francesi
e giacobine. Il Regno di Napoli non fu esente da questo cataclisma politico.
Il 22 gennaio del 1799, infatti, fu proclamata la Repubblica Partenopea, che
ebbe la breve durata di appena cinque mesi, dopo che i soldati francesi,
appoggiati da un gruppo di intellettuali napoletani, si impadronirono della
città. Per alcuni giorni Napoli divenne teatro di scontri furibondi in cui
regnarono confusione ed anarchia. Era la guerra civile. Si contarono
migliaia di corpi senza vita, tra napoletani e francesi. La gioia esultante
dei vincitori venne tuttavia soffocata dalle lacrime di tante madri e mogli.
La ripercussione di questi fatti fece il giro delle Province del Regno di
Napoli, compresa quella di Terra d’Otranto. Nel febbraio del 1799, infatti,
dopo la proclamazione della Repubblica Partenopea, il Sindaco di Tuglie
Matteo Miggiano si rese, “per così dire… responsabile” insieme ad
altri tre nostri concittadini, probabilmente amministratori come lui,
dell’innalzamento dell’albero della libertà, ma che essi stessi spiantarono
il giorno seguente. Questo tipo di atteggiamento altalenante, ovvero di
piantare e svellere l’albero della libertà, venne praticato da tantissimi
altri sindaci di altrettanti paesi della Provincia di Terra d’Otranto, nel
Regno di Napoli di Ferdinando IV di Borbone, i quali, a leggere quelle note,
esponendosi tutti in prima persona, hanno dato l’impressione che ci sia
stato una specie di “accordo strategico intercomunale”: come se, con
l’innalzamento dell’albero, si sia voluto intenzionalmente far credere ad “una
anelata adesione” delle popolazioni alla Repubblica dei nuovi governanti
francesi e, al tempo stesso, con il suo sradicamento, si sia voluto mettere
al riparo le stesse popolazioni dalle “ire dei Borboni” o
dall’esercito dei Sanfedisti seguaci del Re che, nel frattempo, giungeva
voce, stavano preparandosi alla Restaurazione del Regno di Napoli. Non è
escluso, quindi, che tutto ciò fosse stato pianificato dai governatori
locali per non esporre i propri cittadini ad inutili spargimenti di sangue.
Quella di evitare stupide lotte tra poveri è stata con ogni probabilità la
motivazione del saggio comportamento del Sindaco Matteo Miggiano, del
muratore Luigi Longo e dei contadini Giovanni Isabella e Vito De
Salve consumato nella piazza di un piccolo paese tranquillo e laborioso
come Tuglie che, come avrete modo di leggere, era formato da appena 1.300
anime.
Forse non sapremo mai per chi tifassero il sindaco Miggiano insieme ai
nostri tre concittadini, ma sappiamo certamente che, per come si sono svolti
gli eventi, nei pochi mesi del periodo repubblicano di fine ‘Settecento,
quello che hanno fatto era l’unica cosa sensata e previdente da farsi.
Ma ora veniamo all’albero della libertà per scoprirne il significato.
Il suo innalzamento era la rappresentazione materiale di un regime che
veniva radicalmente soppiantato.
Quando a Parigi, infatti, dopo la presa della Bastiglia, i rivoluzionari
francesi piantarono il primo albero come simbolo di libertà, lanciarono
involontariamente un modello che fu seguito dalle popolazioni del mondo
intero. L’albero della libertà era in realtà la pianta crescente e
rigogliosa del popolo che, a seconda dei luoghi poteva essere un pino, un
alloro, un olmo, un gelso e persino un arancio, ma quello che più lo
rappresentava era il pioppo, il cui nome scientifico è “populus”, che
significa per l’appunto “popolo”. I pioppi, quindi, essendo le piante
del Popolo erano per antonomasia gli Alberi della Libertà. Essi venivano
piantati generalmente nelle piazze principali cittadine, con sulla cima una
berrettina rossa (il berretto frigio indossato dai galeotti di Marsiglia
liberati nel corso della Rivoluzione Francese) e addobbati con una o più
bandiere col tricolore dei giacobini e coccarde e nastri (da qui il
titolo del libro: “Coppola rossa, bandiere a tre colori, ‘nnocche
e ‘nzagarelle”, termini questi che, salvo qualche piccola licenza
poetica, ritroviamo nel “Notamento de’ Rubricati in Materia di Stato della
Provincia di Lecce, contenuto nel già citato “I Rei di Stato Salentini del
1799”, di Nicola Vacca).
Va ricordato che tra le innovazioni che la Repubblica vantava, in nome della
Ragione, ma mai accettate dalla popolazione, c’erano anche l’abolizione
delle Feste cristiane e la soppressione dei Santi dal Calendario, il quale
era formato da dodici mesi (dal nome completamente trasformato) tutti
di trenta giorni e affinché quelli rimanenti fossero destinati per lo
svolgimento di solenni festeggiamenti pagani intorno agli alberi della
libertà, considerati dei veri e propri altari pagani dove si svolgevano le
varie funzioni politiche.
Sotto le loro fronde venivano officiate cerimonie di giuramento nei
confronti delle nuove autorità, si promulgavano decreti, si accendevano falò
con i diplomi nobiliari e, danzando sulle note della “Carmagnole”,
cantata dai soldati francesi nelle città repubblicane, si dava vita alle
clamorose celebrazioni rivoluzionarie.
È significativo, poi, che con la Restaurazione dei Borboni, i Napoletani,
facendo sfoggio della loro proverbiale ironia, in contrapposizione alla
“Carmagnole”, intonarono il “Canto di guerra dei Sanfedisti”,
riproponendolo con gran fragore in tutto il Regno, con ogni sorta di
strumenti dai suoni più variegati, come “grancascie, tammorre,
tammurielli, triccheballacche, caccavelle e scetavajasse”. Le strofe che
lo compongono non sono altro che la Storia scritta dal Popolo, la cui
descrizione spesso si discosta dai fatti raccontati dagli storici, ma anche
da cronisti-scrittori, talvolta di parte e sottomessi, chiaramente, alle
direttive del Potente di turno. Nella Storia ufficiale che conosciamo, oltre
ad essere descritta come “desiderata dal Popolo” e “ben disposta all’Unità
d’Italia ed ai Savoia”, La Repubblica Partenopea “fallì miseramente per
l’intervento furibondo di gruppi di Lazzaroni”, i quali furono scambiati
tutti indistintamente e volutamente per delinquenti. Questa interpretazione
è ingannevole e lontana dalla verità, così com’è ingannevole
l’interpretazione inversa, ossia in senso filo-borbonico, che bolla i
Repubblicani come nemici del Re e della Religione. Le pagine di questa
parentesi storica, sono ormai traboccanti di fatti ed interpretazioni che
contribuiscono a complicarla sempre di più.
L’aspetto positivo di queste incongruenze, però, è che esse stesse possano
diventare uno stimolo per gli storici e indurli quanto prima, a “rivederla e
correggerla” con molta attenzione e imparzialità.
Dall’intera vicenda emerge, comunque e inconfutabilmente, una sola cosa: il
sentimento della popolazione era antifrancese. Gli intellettuali giacobini
napoletani vennero visti ed implicati, a ragione, come complici degli
invasori transalpini e, quindi, nemici del Re e del Popolo stesso.
Ma, diciamocelo pure serenamente, non era proprio così.
Agire contro la Patria, il Regno di Napoli, non era nelle intenzioni di quei
repubblicani, o giacobini napoletani, essi volevano solo riformarlo e in
cuor loro lo speravano veramente. In fondo anche loro avevano un sentimento
filo-borbonico.
Gli avvenimenti, purtroppo, hanno preso la mano a tutti e la colpa del
disastroso epilogo che ebbe la Repubblica Partenopea, fu di tutti i
protagonisti che vi parteciparono, da Ferdinando IV, all’Ammiraglio Nelson,
dal Cardinale Ruffo, all’Ammiraglio Caracciolo e, per finire dagli
intellettuali Giacobini napoletani, ai Francesi; i primi, di cui pochissimi
erano del luogo, chiusi nel loro idealismo borghese, non conoscendo il
Popolo napoletano, non capirono che questo non sentiva la necessità di
cambiare regime, perché dal governo di Re Ferdinando poteva avere certezze,
dai loro ideali, invece, non si ricavava nulla e servivano a poco; i
secondi, poi, i francesi, non sono stati mai interessati alla Repubblica
Napoletana, né tantomeno ai suoi problemi, miravano invece, a crearne una
tutta francese, così com’era avvenuto nelle città repubblicane dell’Italia
Settentrionale, oltre, naturalmente, alle ricchezze del Regno di Napoli. Fu
questo il vero motivo del loro appoggio. Furono loro il vero governo della
Repubblica Partenopea, commettendo ogni sorta di angherie e scempi efferati,
addebitati poi, in maggior parte, ai Giacobini Napoletani che formalmente
ricoprivano le cariche pubbliche.
Questi i protagonisti della triste vicenda della Repubblica Partenopea del
1799. Nessuno di loro capì che Napoli non era Parigi. Le rivoluzioni e i
cambi di regime sono sempre avvenuti quando la popolazione è spossata dalla
fame o percepisce la mancanza di sicurezza, così come avvenne in Francia,
dove i regnanti non seppero affrontare cinque lunghi anni di grave carestia,
sfociati poi con la Presa della Bastiglia. Il Popolo Napoletano, invece,
queste cose, non avendole vissute, non le conosceva, grazie ad una Monarchia
che (nel bene e nel male) era integrata nel tessuto umano del regno
di Napoli.
Resta il fatto, comunque, che l’esperienza rivoluzionaria del 1799, fallì
per la “impossibilità o incapacità” della borghesia repubblicana di
collegarsi e fare causa comune con le masse popolari che, come sempre,
furono quelle che ne pagarono le conseguenze.
Quei Napoletani non solo subirono gli oppressori francesi, ma ebbero il solo
torto di “insorgere” contro quegli stranieri. Non furono chiamati
Patrioti, come è giusto che si dovrebbe dire in queste circostanze, ma
làzzari, straccioni, plebaglia, ribelli, ma anche “Brigand”,
dando il via, con questo franco neologismo, ad esasperare il fenomeno del
brigantaggio. Molti di loro, infatti, i veri Patrioti, contrari
all’invasore, per evitare la forca furono costretti a scappare e darsi al “bando”
diventando “banditi” e fuorilegge, la legge marziale dei giacobini
francesi.
Il detto popolare “Vattuti, curnuti e cacciati te casa”, originato
probabilmente da quei fatti, non è stato mai così appropriato.
Concludo affermando che il Regno di Napoli probabilmente non era la
meraviglia che alcuni meridionalisti sostengono tutt’oggi che fosse, ma non
si può neanche affermare che fosse la “negazione di Dio”: era un
Paese ricco e normale che cercava di diventare moderno e civile e che,
soprattutto, avendo una componente di aggressività uguale a zero, non
costituiva un pericolo per nessuno. Gli abitanti del Regno di Napoli, che
per quanto mi riguarda era preferibile in ogni caso al Regno dei Savoia,
come ci viene narrato da Bartolomeo Ravenna, vivevano sicuramente meglio,
specie quelli di Terra d’Otranto, di quanto gli sia toccato dopo, con tasse,
emigrazione, leve e guerre.
Per la legge del destino non possiamo sapere come sarebbe stato il Regno di
Napoli senza la parentesi della Repubblica Partenopea, ma certamente il suo
sviluppo e la sua economia avrebbero preso, una piega diversa.
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Tuglie...per raccontar paese...
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