Quel piccolo triangolo equilatero era il suo salotto. Lo era
diventato dopo, quando i clienti non sgusciavano più, di soppiatto e
a notte fonda, a trovarla nel suo appartamento "alla via te sotta",
che poi era quella incantata via XXIV Maggio, un distillato di
memorie che racchiudeva di uomini e di usi di abitare del paese. Col
passar delle stagioni e col traslocare le rughe delle "pucce" al suo
viso, s'erano rarefatte le ragioni del suo scambiarsi fra quattro
mura gli uomini del paese. Ora andava lei a cercarli. E non potendo
recarcisi di casa in casa, quasi a storicizzare il controesodo, dava
appuntamento in quel fazzoletto di marciapiede dove troneggiava la
fontana pubblica, abbeveratoio umano e no, a ridosso della piazza ma
da essa pudicamente discosta.
Aveva, quello zampillare ininterrotto, un che di animistico e di
sguaiato insieme. Per il suo antico mestiere l'acqua ricopriva un
duplice significato di lavacro igienico e di emendamento dal
peccato. L'acqua era il suo passaporto tanto per guardare diritto in
faccia e negli occhi le donne e gli uomini- era l'unica nel
paese cui era consentito di farlo, le altre donne a testa bassa
ingoffite nelle gramaglie- quanto per farsene una bandiera. |
|
La cosa
che ricordo di più di quel suo tramonto idrofilo era il sorriso a maglie
larghe, sgangherato e clownesco, fiducioso, attrattivo, complice. Le
sostavano tutti intorno, anche i bambini a ridosso di quella fontana,
attratti da quella babilonia di colori. E lei, immancabilmente, "che
bello che sei", sussurrava spalancando quella bocca carminio di antiche
voluttà, quasi a rinfrancare l'ospite più che a proporgli improbabili
amplessi. Era anche questo un continuum del suo antico donarsi, senza
riserve.
Eppure quanti ostracismi, quante beffe, specialmente di noi ragazzi,
intorno agli anni 50. Di giorno lei attraversava il paese da cima a
fondo, sempre in mezzo alla strada, indisturbata, anzi ostentatamente
invisibile agli stessi uomini che le erano più devoti. Ma di notte,
andando noi in branco sotto le sue finestre a vendicarci del suo mistero
aperto, del suo fascino corrotto e incorrotto ma per noi inavvicinabile, era proprio la sua inavvicinabilità la molla che ci incattiviva a
urlarle a quell'angolo di via XXIV Maggio, "Rosa Parata, Rosa Parata,
Rosa Parata!" Qualche inevitabile epiteto, ma era un di troppo, perché
per noi era quel nome e quel cognome che dicevano tutto di lubricità
esposta e rappresentata. Una vita pubblica quando tutt'intorno era
privato, riserbo, silenzio, dramma antico. Lei sorrideva e rideva a
pancia piena in un paese dal muso lungo. Era questa contrapposizione che
forse ci irritava più di quel non potercela portare a letto per farci
all'amore. A pagamento. E specialmente inveendo e infierendo con quel
cognome che , nomen omen, il nome come presagio e come suo reale
rappresentarsi, prima il nome di "Rosa" destinata ad aprirsi e quindi a
darsi e quel "Parata" insieme esposizione e proibizione, credevamo di
umiliarla più dello stesso marchio di puttana.
Soltanto molto tempo dopo, diradandosi il suo presiedere nel salotto
della fontana, iniziavamo ad avvertire la mancanza dell'abbigliamento
straniato e sgargiante, il viola, oh quel viola! che dalle liturgie della
tragedia cristiana veniva sdoganato a inno della vita, il giallo delle
spighe di grano nel suo giugno rigoglioso, il verde tenace dei prati
d'inverno, il marronerosso della terra dissepolta lungo i filari
dell'uva, l'argento mutevole degli ulivi.
Era la rivincita della vita nei suoi colori, nei nostri colori che Rosa
riscattava sfoggiandosi come nessun'altra avrebbe mai potuto osare.
Nessuno aveva compreso che Rosa da ultima sacerdotessa restituiva ad
ognuno di noi il senso pagano e libero dell'esistenza, un altro modo di
intenderla quella vita, più libera e più estrosa, senza steccati. E
quell'acqua era il fonte battesimale al quale invitare i profani
parcheggiati fuori del tempio a bere con lei alla vita. Anche quando il
suo ultimo sorriso s'era brunito di capelli e di rimpianti.
|