Con curiosità e interesse, qualche anno fa mi “arruolai” in un gruppo su Fb
(leggi facebook) denominato “malati di presepismo”. Le foto pubblicate
dagl’iscritti erano promettenti ma il forum dei commenti, man mano che
passavano i giorni, diveniva sempre più inquietante: domande e risposte che
talvolta rivelavano una certa ossessione al limite del paradosso. Ossia, più
che uno scambio di bonari suggerimenti per realizzare un presepe nel suo
messaggio di semplicità evangelica e di “povertà” di mezzi per rappresentare
il più mistico degli eventi della storia del Cristianesimo, così come lo
aveva inteso anche il Poverello d’Assisi nella sua ispirata realizzazione,
notavo che vi era una corsa a chi metteva in atto i più sofisticati
marchingegni per inscenare paesaggi ed ambientazioni mirabolanti e
“futuristiche”.
No, il presepe come sopra inteso è l’esatto contrario di come lo intendo io:
niente marchingegni, niente effetti speciali, poche lucine in sostituzione
delle vecchie e poco sicure “lampe ad olio”, materiali cartacei
possibilmente di riciclo e muschio e tufina da restituire alla natura alla
scadenza dell’allestimento.
E il paesaggio? Solo quello ondulato delle serre salentine sullo sfondo,
dalle quali far scendere, attraverso stretti e dirupati sentieri, tutto un
popolo di viandanti, popolane, pastori e musici all’indirizzo di una grotta
incavata nella roccia di cartapesta… E’ questo il presepe che vedevo
realizzato nelle case tugliesi ai tempi della mia fanciullezza: uno stile
unico, quasi omologato, con cui i giovani capofamiglia costruivano il
presepe per la festa e la gioia dei loro bambini. O che i ragazzi
allestivano in autonomia, sostituendosi al genitore anche per dimostrare che
erano cresciuti e sapevano operare avendo ormai fatti propri i modi e le
“tecniche” osservati durante gli anni della fanciullezza accanto al babbo.
A dire il vero, il modello di presepe sopra descritto non era “calato dal
cielo”, né tantomeno era osservabile nelle rappresentazioni di grandi
artisti o di “ingenui” pittori locali, quasi tutte tendenti a incentrarsi
sulle scene di adorazione o dei pastori, o dei magi, o degli angeli. Gli
esempi presi a modello erano più modesti e di più diretta osservazione:
erano i presepi che in ogni paese venivano allestiti nelle parrocchie e in
competizione con esse nelle chiese confraternali. Nel nostro ristretto
bacino geoculturale, Tuglie, Parabita e dintorni.
Già nel Cinquecento, in area meridionale, si era diffusa la “moda” dei
presepi lapidei permanenti nella forma di altari secondari nelle chiese più
importanti e a Stefano da Putignano viene riconosciuta la più nota
paternità, ma in Salento è assai noto anche il Ricciardi ed altri
scalpellini anonimi ma dal buon gusto e mano fra l’arte e l’artigianato
ripetitivo. Successivamente, diverse furono anche le chiese minori in cui si
emulò la tradizione settecentesca dei presepi permanenti napoletani, esposti
in stipi o in teche tenute a vista.
Nel nostro Salento si preferì realizzare presepi in cartapesta e un
bell’esempio è quello in San Pasquale di Parabita. Fu probabilmente
costruito agli albori dell’800, quando si ebbe il maggior splendore della
Comunità Alcantarina installata nell’annesso convento (Visita Pastorale di
Mons. Salvatore Lettieri, Parabita 1826-27). Da Tuglie frotte di ragazzi,
fra cui mio nonno, un ragazzino negli anni ’80 dell’Ottocento, si recavano a
piedi ad ammirarlo nel periodo natalizio, quando era possibile trovarlo
aperto, mentre nel resto dell’anno rimaneva celato da scuri di tavola. Anche
ai miei tempi delle Medie a Parabita veniva aperto solo in concomitanza col
Natale, ma allora la sua conservazione era davvero precaria e affastellata
di rami secchi. Ora osservo, dalle foto gentilmente passatemi dal garbato
Emanuele Toma, giovane parabitano doc per nascita ed orgoglio di
appartenenza, che i bei pastori, in fogge salentine ottocentesche, splendono
di recenti e ben condotti restauri. Un altro particolare ricordo dei miei
anni di studio a Parabita: i pupi di creta realizzati in gran quantità,
anche se in forme e pitturazione un po’ approssimative, da un tale Giuvanni
te lu coco (Pisanelli?) che tra gli anni ’50 e ’60 modellava, cuoceva,
dipingeva, esponeva e vendeva in una casupola nei pressi dell’allora Scuola
Media, ora Palazzo Coi. Ne comprai un bel po’, ma sono pochi quelli che mi
sono rimasti superstiti…
Ad imitazione della bella tradizione presepistica tramandata in San
Pasquale, una decina di anni fa l’allora parroco tugliese, Don Emanuele
Pasanisi, mi sollecitò a realizzare e donare un presepe permanente in
cartapesta, di dimensioni ragionevolmente più attenuate, per il piccolo
Santuario di Montegrappa. Lo eseguii volentieri, aggiungendo anche un
particolare: tra i pastori a cornice della Grotta di Betlemme inserii anche
l’Uomo e la Donna del Paese di Tuglia in provincia di Lecce nelle fogge
settecentesche che Ferdinando IV di Borbone intorno al 1780 aveva fatto
dipingere in gouache al pittore Della Gatta nel suo tour nel Regno di
Napoli. L’uomo (‘Ppinu) offre un fascio di sarmente e la donna (‘Nziata)
reca un cesto di fasce e panni, ciò rappresentava, e spero che ancora
rappresenti, il calore umano dei campagnoli di Tuglie nei confronti della
vita nascente…
Buon Natale!
|