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L’asilo rionale negli anni 50 nel Salento


              Salvatore Malorgio - L'asilo rionale negli anni cinquanta nel Salento.
                                          2021-olio su tela - cm. 50x70

Questo è un lavoro pensato e realizzato con il solo scopo di ricordare un aspetto specifico degli anni 50 che era quello dell’asilo per l’infanzia che da noi al Sud era quasi sconosciuto e le famiglie più povere avevano il grosso problema di affidare i bambini a qualche ente o privato che potesse accudire la prole in età prescolare dato che anche le donne lavoravano in campagna al pari degli uomini. Anche questo aspetto della vita contadina si innesta benissimo nella serie di miei lavori che ho già inquadrato nel tema : “ Come eravamo “. E adesso, consentitemi, una volta tanto, di prendermi il merito esclusivo di ricordare quegli avvenimenti di cui nessuno finora ne ha fatto menzione, sia con uno scritto e sia con un’opera d’arte pittorica! Sono consapevole che queste vicende e questo aspetto di vita vissuta è ormai passata nel dimenticatoio naturale della nostra storia e solo i miei contemporanei se lo ricordano, almeno quelli che hanno sperimentato quella condizione. D’altra parte non tutti sono passati per questa esperienza e pertanto è naturale che accennino a ricordi vaghi e remoti, cose passate, anzi trapassate senza che abbiano lasciato qualche segno che meritasse di essere ricordato. Io a quell’epoca le ho vissute, e oggi a distanza di 70 anni mi piace ricordare e soprattutto onorare le persone che avevano questa incombenza che rivestiva carattere di assistenza sociale e che si dedicavano con passione e abnegazione a quel compito di accudire noi bambini e bambine. A quei tempi non era cosa facile, e anche se la presenza di bambini raramente superava una decina di unità era un bell’impegno riuscire a tenerli buoni per tante ore. L’unico elemento che giocava a loro favore era il fatto che a quell’epoca noi bambini eravamo abituati a un’educazione e a una disciplina ferrea all’interno delle rispettive famiglie e questo agevolava il compito della persona responsabile che si assumeva il ruolo di educatrice e insegnante. Le raccomandazioni dei genitori si sprecavano e a sera quando si rientrava in famiglia c’era sempre il rapportino della responsabile che dava il voto sul comportamento individuale della giornata. Il risultato era, o un encomio per il buon comportamento o una sgridata accompagnata da qualche manata sul fondo schiena da parte della propria madre ( per comportamenti poco rispettosi di una certa entità ). A quell’epoca non c’era il telefono azzurro, anzi nessuno aveva neanche quello normale, e l’educazione al buon comportamento e alla disciplina era dosata anche da qualche sculacciata e dai castighi più o meno pesanti in relazione alla gravità delle mancanze, elargiti all’interno delle rispettive famiglie ed erano mirati come deterrente all’apprendimento forzato delle regole comportamentali. In ogni caso, il problema dell’assistenza ai piccoli c’era ed era molto sentita. Parlo di un’epoca di famiglie numerose, quando non si disdegnava a far nascere bambini , e di certo non erano ragionieri per calcolare se il figlio lo si doveva cercare in funzione delle possibilità economiche della famiglie. La presenza di bambini e ragazzi nel dopoguerra era abbastanza nutrita, semplicemente ci si affidava alla provvidenza per accudirli e crescerli.

Qualche cenno storico sull’argomento :
Le esperienze originali riconducibili agli attuali asili-nido (e scuole per l'infanzia) risalgono al XVIII secolo e in Italia c’è voluto più di un secolo prima di arrivare alle attuali normative che regolano l’attuale gestione delle scuole materne. Essi sono istituiti in Italia intorno al 1830 come luogo di custodia e di assistenza per bambini al di sotto dei tre anni, figli di madri lavoratrici. Nel 1840 – 1850 nascono le prime strutture per bambini da 0 a 3 anni chiamate “presepe”. Bisogna aspettare il 17 giugno 1850 quando a Milano viene fondato il primo asilo nido "Ricovero per lattanti" per i figli delle operaie, istituzione laica e gratuita, grazie alla filantropa Laura Solera Mantegazza e a un gruppo di studiosi che denunciavano il fenomeno dell'abbandono minorile.. Il regime fascista istituisce nel 1925 l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che ha come obbiettivi la difesa ed il potenziamento della famiglia e della natalità. L'opera sostiene le madri bisognose e indigenti, promuove la diffusione di conoscenze scientifiche riguardo alla puericultura e istituisce la creazione di asili nido con carattere assistenziale, nelle fabbriche in cui lavorano più di 50 donne. La legge che istituisce gli asili nido veri e propri centri educativi però è del 1971, che definisce il nido come un "servizio sociale di interesse pubblico".

La problematica al Sud:
Non ci vuole molto a capire che al Sud, luogo di eterna arretratezza e di mancanza di supporto adeguato dai governi repubblicani del dopoguerra per creare le strutture adeguate, il problema era di gran lunga sentito viste le condizioni generali di vita vissuta con la schiena curva sui campi in cui era preziosa anche la presenza lavorativa delle donne. I genitori dei ceti più bassi infatti, afflitti dalla povertà e dall'indigenza, costretti a lavorare entrambi dall'alba al tramonto per offrire un minimo di sostentamento alla famiglia, non potevano far altro che abbandonare i piccoli nelle strade. Per precisare, parliamo di bambini da tre a sei anni. E allora che fare ? Come sempre il bisogno aguzza l’ingegno e il problema si risolse con l’avvento delle “ Sale di custodia”, da noi popolani chiamate semplicemente “ Casa te la mescia “ ( casa della maestra ). In pratica erano per lo più nonne che per la loro esperienza, saggezza e l’alto profilo di affidabilità, nonché timorate di Dio si prestavano a questa incombenza. Si formarono così queste istituzioni spontanee extrascolastiche ( in senso ricreativo e caritativo) e senza regole istituzionali, autogestite da queste persone di grande carità cristiana. Ogni quartiere aveva la sua “mescia” che faceva veci di istitutore per l’istruzione religiosa, morale e intellettuale. Era comunque evidente che quella specie di scuola materna non doveva essere un semplice luogo di “parcheggio” per i figli di madri lavoratrici, ma un vero luogo di insegnamento e di assistenza. L’educazione doveva essere comprensiva di precetti per un corretto sviluppo intellettuale, morale e fisico della prima infanzia e nell’educazione morale venivano compresi l’insegnamento della dottrina cattolica e della storia sacra. Alla “ mescia “ era d’uopo pagare una misera retta, le famiglie dovevano osservare con un certo scrupolo gli orari d’ingresso, continuità della frequenza e pulizia personale.

La mia esperienza personale su questo tema:
Era da tempo che anelavo di dedicarmi a quest’opera, e quando dico tempo, mi riferisco a diversi anni in quanto quella parentesi della mia vita, quando frequentavo la casa “ te Mescia Candida “ ( all’anagrafe Schirinzi Candida ) moglie di Salvatore Rubino e della figlia ( mescia Venerina ) il cui appellativo di “ mescia” le apparteneva in quanto maestra sarta, sono tra i ricordi unici di quell’epoca vissuta in modo altrettanto unico e gioioso da tutti noi figli del dopoguerra. Ed eravamo in tanti! L’dea mi è maturata di recente quando l’estate scorsa, sostando con i pennelli in mano in un momento di pausa, sbirciando tra i tanti manufatti nel mio sub nella casa di Montegrappa a Tuglie, lo sguardo si fissò in un angolino dove c’era “ nu scanniteddru te taula “ ( un piccolo scannetto di legno ), con le piccole assi tarlate e mezzo schiodato . Lo conoscevo bene, era lo stesso che circa 70 anni prima all’età di 3 anni me lo mettevo sotto il braccio e col panierino di cartone pressato con dentro una fetta di pane ( il più delle volte scondito ) mi avviavo alla casa “ te mescia Candida “ dove trascorrevo buona parte della giornata con altri bambini accomunati alla mia stessa condizione, figli di contadini anch’essi, con le medesime problematiche. Normalmente la mescia ci riceveva in casa , ma se il tempo lo permetteva sostavamo sul retro della casa dove vi era un piccolo giardino. L’arredo era di mobili dell’epoca, un comò, un letto, due comodini, un tavolo su cui appoggiare le nostre merende, un orologio, un crocifisso, immagini di devozione sacra. Ci disponevamo intorno a lei in semicerchio e a turno ci interrogava sui piccoli avvenimenti della sera prima nelle rispettive famiglie e dopo, previo segno della croce iniziavamo “ le lezioni “ che consistevano principalmente nello sciorinamento di qualche racconto. Si imparava qualche filastrocca e qualche canzoncina, si faceva lezione di catechismo con racconti ricavati dai Vangeli e si imparavano le preghiere, quelle più comuni. Sul tardi, si faceva merenda con quello che le mamme mettevano nel panierini ( quasi sempre una fetta di pane e qualche frutto ). A quanti mancava il companatico mescia Venerina, me la ricordo claudicante ( era sua quell’incombenza), ci spalmava un po’ di marmellata fatta in casa sul pane. Quei gesti caritatevoli mi hanno lasciato un segno e facevano parte del modo di vivere la carità cristiana, quando ci si aiutava gli uni agli altri e quando si era timorati di Dio.

Avrei terminato!
Spero che questa mia fatica di dipingere questa tela e quella di scrivere a testimonianza di quello scorcio della nostra vita di figli del Sud, lì, in quella porzione del tacco salentino, bagnato da due mari e spettatore di tante storie che ci hanno accomunato e che ci ha reso fieri del nostro operato tra la nostra gente e fuori dagli amati confini vi sia piaciuto. Io, per passione, come sempre, mi sono dedicato al meglio delle mie capacità di pittore e scrittore. In attesa di futuri lavori artistici vi saluto tutti/tutte con un abbraccio virtuale.




Commento all’opera :
In quest’opera ho voluto trattare un argomento che mi è caro, mi rimanda a tempi della mia fanciullezza negli anni del dopoguerra e che si innesta nel tema più ampio di un “ amarcord ” come il titolo del film di Fellini, di un “ mi ricordo “ di “ come eravamo “. Il tema è nel titolo dell’opera, e la scena descritta è un richiamo su quanto ho esposto nell’articolo trattato sull’argomento. Ho voluto creare una scena che rimanda al tema dell’asilo rionale e ho immaginato una nonna ( la maestra ) che aveva l’onore e l’onere di fare da insegnante ai bambini e bambine, figli nella totalità di famiglie contadine della mia terra Salentina. Ho mischiato i miei ricordi e un po’ di immaginazione con questa scena che si svolgeva nella bella stagione con temperature ottimali da stare con un semplice vestito a maniche corte e fuori, in strada di fronte alla porta di casa della maestra. Ho immaginato una nonna dalle rughe accentuate come segno di saggezza, fiducia e affidabilità, vestita con colori scuri come era la tradizione delle persone anziane e un po’ logoro dall’uso e dal tempo. Le mani con le dita incrociate in atteggiamento di parlare o di raccontare qualcosa ai piccoli spettatori che sono assorti e attenti/e , specie le tre bimbe vestite di bianco. Le altre due presenze di piccoli ivi convenuti hanno atteggiamenti un po’ assenti, nel bimbo accovacciato su una stuoia e appoggiato al muro si nota una certa estraneità ad ascoltare e col dito in bocca , simbolo di qualche disagio di cui soffre il bambino, visto che a quell’età normalmente si smette di succhiarsi il pollice. Anche l’altra bimba più piccola ha lo sguardo perso nel vuoto e sembra che tragga conforto dal suo amichetto a quattro zampe che tiene avvolto in un golfino di lana a trama larga di grossa taglia. Da notare gli scannetti di legno grezzo, di fattura approssimata, assemblati verosimilmente in casa con materiale di fortuna e già usato, ( da notare che uno dei montanti ha lo spessore doppio dell’altro ). Per avvalorare la scena e il momento storico in cui la precarietà e i mezzi a disposizione erano scarsi ho posto la bimba di destra seduta su un cippo adibito alla bisogna. Ho voluto altresì dare all’insieme un alone di ampio respiro per il valore insito che quel luogo, con persone pulite, sia nei sentimenti e sia nella saggezza della maestra in atteggiamento didattico e, in antitesi al colore scuro del suo vestito, ho abbondato col bianco dei vestiti delle piccole per dare una parvenza di ambiente scolastico e col bianco dei muri dipinti in calce dei nostri paesi del profondo sud. Nel dopoguerra la maggior parte degli infissi esterni erano dipinti essenzialmente da due colori dominanti: Il verde e il nocciola, ed eccoli qua raffigurati entrambi. Il colore della porta è un po’ logoro, segno di inappropriata manutenzione , ma era normale che fosse così. L’anta esterna della finestra a lato si fa notare per essere un manufatto costruito con legname assemblato alla meglio e dal tipo di cerniera in ferro battuto in uso in tempi che rimandano alla fine dell’ottocento. Il vaso di fiori sul davanzale della finestra è una nota di colore aggiuntiva per abbellire e ingentilire la scena.

       In fede : Salvatore Malorgio , umile pittore, aspirante scrittore e Tugliese D.O.C.



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