Davanti al camino - 2018- olio su tela - cm. 50 x 70
Carissimi amici , dopo un po’ di tempo mi riaffaccio su questo bellissimo
sito di Tuglie dell’amico Felice Campa con un nuovo lavoro di pittura e con
uno scritto , un altro pezzo di storia vissuta in un’altra epoca che ha già
la caratteristica di essere annoverata come ” antica “ . Non so se cinquanta
anni o sessanta bastano a definirla tale, certamente non parliamo di qualche
anno fa ma l’arco di tempo spazia per più di mezzo secolo fa e pertanto mi
sono concesso la licenza per definirla tale ! Il tema che desideravo
sviluppare era quello relativo a un aspetto particolare che si viveva in
seno alla nostra civiltà contadina specie nel periodo invernale e allora mi
sono adoperato di rappresentare in questo lavoro un camino acceso che tra
fiamme tizzoni e brace fosse testimone di quello che accadeva intorno ad
esso . Al tutto ho voluto dare un titolo che poi è lo stesso dell’opera:
DAVANTI AL CAMINO ….. storie di vita antica…!
Prima di addentrarmi nei miei ricordi di ragazzo , mi sembra giusto e
doveroso iniziare col dedicare qualche riga a quello che era il momento
storico di allora, pertanto , di seguito vado a presentare : Reminiscenze e
contesto storico negli anni cinquanta sull’argomento : Mi pare di
riascoltare, attraverso le espressioni spontanee che sgorgavano dal cuore di
quelle anziane donne segnate dall’età e dalla fatica “a fore”, ( in
campagna) , “Che tempi erano quelli!!!” Il sapore dei racconti della mia
buona nonna “Ntina“, ( Fiorentina ) quando lei seduta intenta a
sferruzzare qualche paio di calzini di lana e io piccolo, in piedi,
aggrappato ai suoi vestiti un po’ logori e stinti o appoggiato sulle
ginocchia stanche ma ancora tanto forti, mi faceva conoscere le esperienze
di lavoro dignitoso, forte e generoso che insieme a tante sue coetanee
svolgeva nei campi nel tempo della raccolta delle olive o della vendemmia o
della “mietitura ” per ricavare il pane di un giorno ogni giorno ; o il
lavoro servile presso “allu cofunu” (il bucato col la liscivia ) e alle
“pile”, ( i contenitori capienti in cemento dove di lavavano i panni ) delle
case signorili per ottenere la porzione di legumi o di grano o il quinto di
olio ( 200 ml. ) per sfamare la propria famiglia. “ Che tempi di sacrificio,
di abnegazione e di fatica, erano quelli !! ” Si lavorava tutto il giorno
portando con sé un pezzo di pane il più delle volte “ppalumbutu” ( ammuffito
) e alla sera tutti insieme, si consumava la cena frugale, si pregava e si
ringraziava il Signore per il pane che ci concedeva: poi tutti insieme ci si
raccoglieva intorno al camino e si ascoltavano i racconti dei nonni, gli
insegnamenti dei genitori, e i loro esempi di lavoro libero e generoso, le
loro aspirazioni a dare istruzione e un avvenire migliore ai propri figli,
per assicurare i “panni ” giusti in dote alle figlie da maritare; sovente
si sentivano i sospiri di speranza e di amore delle nonne e delle mamme che
alla luce “te li patroij “ ( dei lumi a petrolio ) ricamavano le “purtate” (
il corredo ) o cucivano le lenzuola da dare in dote. Poi, poco prima di
andare a letto si assisteva al premuroso affaccendarsi della mamma che
curava amorevolmente la sistemazione delle lenzuola riscaldate ” cu lu
scarfalettu “ ( il contenitore di rame con dentro la brace ) , per far
trovare il letto caldo ai propri cari e per mitigare il freddo e l’umidità
che invadevano la povera casa priva di riscaldamento. Mia mamma , premurosa
come tutte le mamme , appena finita l’operazione- riscaldamento letto- mi
esortava : “ sbrigate cu trasi intra allu lettu ca si nò mo se daffridda
naddra fiata “ ( sbrigati a entrare nel letto altrimenti si raffredda
un’altra volta ). In quei tempi, il pane era scarso, il lavoro durissimo, le
risorse poverissime, ma forte era la volontà di riscatto e di libertà. Ci si
accontentava dell’essenziale per sopravvivere. La famiglia era una comunità
di produzione e consumo, una comunità educativa , non era frantumata da
individualismi e dalla ricerca del superfluo. Nelle famiglie della povera
gente non penetravano mode consumistiche, né suggestioni di droga che tra
l’altro non sapevamo neanche che esistesse, bisognava pensare al pane
quotidiano a ad imparare un mestiere. Talvolta diventava robusta e
irrefrenabile l’aspirazione ad assaporare i beni dell’istruzione e a
conquistare una professione, ma bisognava fare in fretta perché la
spensieratezza della fanciullezza si frantumava dinanzi al bisogno di pane e
di lavoro. Tanti miei amici han dovuto abbandonare qualsiasi velleità di
studio viste le scarse risorse famigliari e sono andati a lavorare già da
adolescenti.
DAVANTI AL CAMINO :
Quando ancora non c'era la televisione, nelle fredde serate invernali dove
il vento di tramontana ti sferzava e si insinuava sotto i vestiti fino a
penetrarti nelle ossa, infreddoliti e miseri ci si riuniva davanti al
camino. A tratti il vento urlava rabbioso nella canna fumaria, come se
volesse intrufolarsi nella casa, ma si fermava davanti ai ciocchi di legno
che crepitavano e facevano una fiamma più viva e le folate di fumo
aggredivano la vista e i polmoni. E lì , davanti al camino, c'era chi
raccontava le storielle che non avevano nulla di straordinario, ma il tepore
e la compagnia le rendevano di una bellezza particolare. Allora la fantasia
dei vecchi dava prova del suo valore, e comunque non reggeva alla domanda
dei ragazzi che non si saziavano mai di ascoltare rapiti e avrebbero passato
la notte ammaliati dalla voce calma del nonno o della nonna, i quali spesso,
da attori consumati, mimavano la scena e strappavano anche qualche risata.
Il camino ha rappresentato nei tempi passati la principale fonte di
riscaldamento, usata tanto in abitazioni modeste quanto in quelle più
agiate. Questa sua fondamentale funzione, tuttavia, non esauriva
completamente il ruolo svolto nelle dimore, come fonte unica di
riscaldamento ma costituiva anche il luogo deputato alla cottura dei cibi.
Rappresentava, in inverno, il luogo privilegiato per l’incontro e la
socializzazione. Era intorno al fuoco del camino che si riposava la
famiglia. Era intorno al fuoco del camino che si recitava il rosario, si
chiacchierava, si raccontavano storie, spesso in compagnia dei vicini. Era
intorno al fuoco del camino che le donne rammendavano e, insieme agli uomini
si raccontavano le loro storie o più comunemente quelle incombenti del
vivere quotidiano che giravano quasi sempre intorno all’argomento del lavoro
in campagna. Mi pare di sentire mia madre che rammendava al lume ” te lu
petroju “ ( lampada a petrolio) e interrogava mio padre . “ Sà , comu stane
le ulie st’annu allu Pinculu ? “ - “ Sà “, era il diminutivo di Saiu ossia
Cesario - ( Cesario, quante olive ci sono quest’anno al podere Pinculo ? ).
Mio padre caratterialmente era di poche parole e talvolta era restio a
rispondere su quegli argomenti specie quando le cose non andavano secondo le
sue legittime aspettative, comunque con un po’ di ritrosia dava la risposta
: “ St’annu stamu intra allu ntrassu e nun ndave mute , e allu primu arburu
crande te cascia nun nd’ave propriu , comu sempre s’ave dimostratu
camascione” , ( quest’anno siamo nella stagione successiva alla rimonda e
non ce ne sono molte e al primo grande albero di varietà “cascia” non ce ne
sono proprio , come sempre si è dimostrato svogliato e non ha fruttificato
). Discorsi di povera gente! Sempre assillata dalle scarse probabilità di
provvedere al mantenimento dignitoso della famiglia. Il camino delle case
coloniche era monumentale, con la grande e slanciata cappa al centro della
parete più lunga, l’immancabile base, rialzata un palmo da terra, la catena
per il contenitore dell’acqua calda e il treppiedi in ferro per le
“cazzalore” ( pentole di alluminio di grosse dimensioni ) e i tegami. La
mensola di appoggio in legno o in muratura addossata alla cappa e sulla
quale poggiano gli oggetti e gli utensili più usati , dal porta sale al
mortaio, dalla lucerna, al pesante ferro da stiro, dai contenitori di latta
o di terracotta, al macinino. Una nicchia ricavata nello spessore murario
dove tenere a portata di mano i fiammiferi chiude questo quadretto tipico di
quest’angolo domestico che riporta a una viva descrizione capace di far
riaffiorare alla memoria ricordi d’infanzia di quanti come me li hanno
vissuti. Nelle comuni abitazioni spesso il camino era ricavato in fondo al
sottoscala e quasi sempre era rialzato di circa ottanta centimetri e questo
comportava il fatto che anche se vi era la fiamma generosa e crepitante , i
piedi restavano al freddo. Questa soluzione del piano camino rialzato era
quello della mia abitazione in via Corte Nuova sul quartiere Longa , poco
fruibile per il riscaldamento ambientale ma necessario in quanto qualsiasi
cibo cucinato era fatto al fuoco. Il ricordo della mia fanciullezza corre
veloce a quegli inverni freddi e ventosi passati nella nostra abitazioni
priva di riscaldamento , con i vestiti dalle taglie abbondanti , ereditati
quasi sicuramente dai nostri vicini cui era uso passarsi l’abbigliamento che
alla fine aveva vestito diversi miei coetanei in periodi diversi. La povertà
era totale e accomunava tutti , chi più chi meno e quello di passarsi i
vestiti specie di ragazzi era un mezzo per sopperire alla penuria di mezzi ,
ci si sosteneva in questo modo e nessuno si vergognava di indossare gli
abiti dismessi di altri bimbi, comunque estranei alla propria famiglia. Era
il modo di vivere di quei tempi quando in umiltà ci si aiutava in quel modo
anche sotto quell’aspetto. Credetemi, non sto esagerando raccontando queste
cose, io le ho vissute in prima persona e ora dall’alto dei miei settanta
anni sono felice e contento di poter dare testimonianza in tal senso
attraverso una foto “ d’epoca “ in cui mi si ritrae con un abito da bimba .
Probabilmente la mia mamma in quel momento ha ritenuto opportuno farmi
quella foto ricordo con il meglio che gli era capitato tra le mani e non è
escluso che fosse un vestitino prestato da qualche vicina. Io non sapevo
neanche che esistesse quella foto che a suo tempo ( potevo avere un anno o
poco più ) era stata data a zio Antonio ( fratello di mio padre ) e alla zia
Fede ( sua moglie ) che abitavano a Firenze. Due anni fa alla morte di mio
zio, mia cugina Luisa rovistando negli averi di famiglia la trovò e me la
fece avere. Quando la potei osservare quella piccola reliquia del tempo
passato e tanto preziosa per me, rimasi scioccato quanto basta nel vedermi
così piccolo, pettinato con la “ banana ” in testa e con gli occhi che
lasciavano trasparire un po’ di paura , forse nel sentirmi in precario
equilibrio sulla sedia e soprattutto con la “ chicca finale ” , vedermi
vestito da bimba. Un sorriso un po’ ironico si stampò all’angolo della bocca
e sentii un groviglio interiore che sfociò in una grande emozione. Mia
cugina, ironicamente me la mandò corredata con un messaggio : “ indovina chi
è questa bella bimba ……! ”
Salvatore Malorgio – 1949 - all’età di un anno
Mi sovviene la figura di mia madre che con le ginocchia a terra e lo
straccio in mano lavava il pavimento di casa ricoperto di mattonelle 25 x 25
montati alternati a spiga di colore cemento chiaro e cemento scuro e io che
con i calzoncini corti tenuti su da bretelle incrociate dietro la schiena e
col moccio costantemente appeso al naso, piangevo sconsolato per il freddo.
E chi se lo può dimenticare !! A proposito: non capisco perché all’epoca ,
lavare il pavimento era uso comune farlo prostrati a terra con le ginocchia
a contatto costante sul pavimento come i mozzi sulle navi di qualche secolo
prima. Possibile che non esisteva il moccio col bastone ? Mah!! Uno dei
tanti misteri non risolti!! Comunque in un’epoca dove le scope erano
confezionate con le canne di saggina c’è da pensate che non vi erano altri
manufatti e pertanto …….! A casa mia il camino lo si adoperava solo nella
fase di preparazione di qualche cosa da cucinare. Avendo penuria di legna da
ardere si doveva fare economia e quindi non avevamo la fortuna di poterlo
tenere acceso costantemente durante la giornata. Quando rimanevano solo i
tizzoni , a fiamma spenta, mia madre mi faceva sedere sul ripiano del camino
“su nu scanniteddru” ( un piccolo gabellino) che tra l’altro mi portavo
appresso a “mescia Candita” ( maestra Candita ) e sua figlia “mescia Venerina “ ( maestra Venerina ) che faceva la sarta quando la loro casa si
trasformava in asilo per i più piccoli.
UNA PICCOLA PARENTESI : La maestra Candita era la persona vicina di casa che
si prendeva cura di noi ragazzi e che oltre a farci giocare e tenerci buoni
e controllati in assenza dei nostri genitori affaccendati nei lavori rurali
ci insegnava le “cose te Diu” ( il catechismo ) e quindi le preghiere da
recitare a memoria. Confesso che ancora adesso, nei periodi di soggiorno a
Tuglie ogni domenica mi reco al cimitero per pregare sulle tombe dei miei
genitori, dei nonni, degli zii e zie e alle tante persone che ho conosciuto
nei primi vent’anni della mia vita e tra gli altri è sempre opportuna la
visita sulle tombe dei miei primi educatori : “ mescia Candita ” e il mio
maestro delle scuole elementari Luigi Calò : “ lu mesciu Calò “. Io non
dimentico che loro mi hanno insegnato al pari dei miei genitori le regole di
vita essenziali come l’educazione, il rispetto per gli altri e i primi
rudimenti del sapere e dell’imparare le cose utili che sarebbero servite per
il prosieguo della mia vita.
LA STORIA CONTINUA …….. : Stando seduto “ sullu
scanniteddru sotta lu focalire “ ( sullo gabellino sotto al camino ) facevo
un po’ di esperimenti come abbrustolire qualche fetta di pane che si
mangiava subito caldo e non necessariamente condito dopo aver raschiato col
coltello la parte bruciacchiata , oppure bruciare qualche piccolo ramo
scampato alla poderosa combustione oramai avvenuta nella prima accensione o
arrostire qualche “moniceddra” ( piccola lumaca con l’apertura sigillata da
una sostanza impermeabile bianca, da cui prendeva il nome di monachella o
piccola suora dall’abito scuro e copricapo bianco ) , divorata ovviamente
seduta stante e poi farmi ammaliare per qualche tempo dal tepore e dalla
vista dei tizzoni che emanavano comunque una qualche malìa che induceva a
una forma di incanto ipnotico. Sensazioni bellissime !! La sera poi , dopo
la frugale cena a base quasi esclusivamente di legumi cucinati alla
“pignata” ( contenitore di coccio adibito alla cottura dei legumi ), mia
madre raccoglieva la brace ancora ardente rimasta sul piano del camino e la
depositava su un letto di tufo all’interno “ te na limba scozzacata “ ( di
una bacinella smaltata quasi sempre vecchia, forata e ammaccata ) e la
poggiava per terra nell’altra stanza più grande non potendo stare tutti
nell’angusto sottoscala . Davanti a questo braciere semplice e funzionale ci
si sedeva intorno per scaldarci e si passava un po’ di tempo a parlare e
socializzare prima che noi ragazzi , io e mia sorella Rita fossimo spediti a
letto : d’inverno al massimo alle sette e mezza.
“Lu focalire” ( il camino o focolare ) dunque costituiva il cuore della vita
domestica, familiare, e sociale. Questa centralità si rifletteva anche sul
piano costruttivo, strutturale, spaziale. Non era un caso, infatti, se in
gran parte delle case abitative il camino occupava la parte più importante
della stanza più grande dell’abitazione, ovvero la cucina. Lo scintillio e
il crepitare dei tizzoni ardenti rappresentava un legame che si trasmetteva
tra gli astanti e faceva da collante e da compagnia, il suono del crepitio
rendeva tutto molto più bello. Davanti al camino ci si poteva stare anche da
soli senza avere la sensazione di esserlo. Ci si sentiva ammantati da una
presenza reale e viva. Credo sia come la risacca del mare che in qualche
modo ipnotizza lo sguardo e col suo sciabordio ritmico costante induce a una
rilassante pace dell’anima. Probabilmente abbiamo perso parecchie sensazioni
"primitive" di percezione immediata della realtà delle cose, ma qualcosa
ancora ci rimane , anche se sopite nei ricordi d’infanzia.
E PER FINIRE : Qualche accenno all’opera :
La scena è eloquente e rimanda a una dimora contadina di un qualsiasi paese
del Salento. Il primo impatto visivo è quello di una scena di altri tempi (
ma non troppo ) , un tempo passato che i miei contemporanei hanno avuto modo
di vivere in prima persona nella nostra realtà contadina di oltre mezzo
secolo fa vissuta nel Salento . Si notano le pareti un po’ scrostate e prive
di intonaco e il piano del camino non è livellato ma grezzo e consunto dal
tempo e dall’uso quotidiano . Una coppia di vecchietti che in una delle
fredde sere invernali si scaldano al tepore del fuoco generoso del camino
dove troneggia un contenitore dove veniva bollita dell'acqua per uso
domestico e dalla presenza di due contenitori di coccio ( pignate ) dove
cuociono i legumi secchi , pasto principale della società contadina . Quello
a sinistra col coperchio conteneva solo acqua che serviva a rabboccare
quella di destra coi legumi che immancabilmente evaporava . Il nonno col
cappottone invernale dal taglio militare , i pantaloni di fustagno e
l’immancabile coppola. L’aspetto è quello di un uomo avanti negli anni col
viso rugoso e la barba non rasata è come una carta di identità che esprime
una vita di lavoro nei campi , lo sguardo è un po’ assente, quasi sognante e
verosimilmente si sta esprimendo in un qualche discorso con moglie tra un
sorso di vino e l’altro. La donna a capo chino e vestita con abito pesanti è
intenta a filare la lana. Anche lei con la sua faccia rugosa un po’ pallida
denota una vita vissuta tra stenti e fatiche nell’intimità della casa,
conciliata dal caldo e dal crepitio del camino anche lei partecipa al
discorso del marito, così il tempo scorre lento …..!! Da notare un libro
appoggiato sul bordo del camino che era un mezzo di trascorrere qualche
serata in compagnia di una lettura romanzata in un'epoca dove si affacciava
timidamente la presenza di qualche apparecchio radio ( per i pochi che se lo
potevano permettere ) e dove non c'erano altre distrazioni . Il titolo del
libro non è a caso ed è una mia personale reminiscenza della mia nonna
Fiorentina , ( la nonna ‘Ntina ) che leggeva quel libro a mio nonno Bonaventura (
nonno Vantura ) .
Cari amici , che dire di più ? Tante altre cose potrei raccontare, magari le
riservo per qualche altra occasione , quando sentirò ancora lo stimolo per
dipingere qualche altro aspetto di vita vissuta della serie : “ Come Eravamo
“ . Termino pertanto inviandovi i miei saluti e ringraziarvi tutti , in
special modo quelli che avranno la bontà di leggere queste mie reminiscenze
e l’amico Felice Campa che continua generosamente a ospitarmi su questo suo
sito “ unico per ricchezza di contenuti “ . Un abbraccio a tutti anche se
solo in modo virtuale.
Busto Arsizio – 7-10-2018
In fede : Salvatore Malorgio , tugliese D.O.C. e umile pittore.
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Tuglie...per raccontar paese...
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