Salvatore Malorgio – Donne salentine alla fontana - 2017 - olio su
tela – cm. 50 x 60
Ciao carissimi amici tugliesi , era da tanto che non mi cimentavo
nell’ennesimo lavoro della serie : Come eravamo, “ Vita contadina nel
Salento “. Non che avessi esaurito gli argomenti su questo tema, ma è solo
che mi sono preso una “pausa” per così dire per lavorare su altri soggetti
che pure mi stavano a cuore, poi , all’improvviso , in previsione di tornare
a Tuglie nel periodo a ridosso della Santa Pasqua 2017 , mi ha preso
un’altra volta la “febbre del pennello ”come la chiamo io e cioè quella
smania di realizzare su tela un altro aspetto della nostra vita di un tempo
e cioè : l’approvvigionamento idrico a uso
familiare. Quella esigenza primaria, metteva in evidenza
e concretamente la sacralità dell'acqua nella Puglia e nello specifico nel
nostro Salento, terra dalla sete atavica determinata da lunghi periodi di
siccità e la cui disponibilità e utilizzo sociale era affidato e diffuso
attraverso il grande acquedotto, incanalando gli uomini e le donne che
attingevano per le famiglie. Come sempre anche per questo aspetto il mio
racconto è imperniato nel periodo a ridosso della fine della seconda guerra
mondiale e in particolare nel ventennio che va dagli anni cinquanta agli
anni sessanta, gli anni della mia giovinezza. Nota : com’è mia consuetudine anche in questa
esposizione ho intercalato alcune frasi in dialetto e messe in evidenza in
neretto visto che questo scritto è dedicato essenzialmente agli amici
tugliesi. Mi è capitato spesso di sentire qualche persona ( nordica ) che mi
ha fatto notare che alcune cose in lingua dialettale non venivano recepite
nel loro giusto significato e allora di seguito alle frasi in grassetto ho
deciso di riportare tra parentesi la dovuta traduzione in italiano.
Qualche nota storica :
Da un’attenta documentazione ho stralciato quanto segue : La realizzazione
dell’Acquedotto Pugliese e l’arrivo dell’acqua nelle piazze di Puglia ha
rappresentato il primo, tangibile atto dell’Unità d’Italia per le genti
meridionali e pugliesi in particolare. Infatti, nasce con legge del Regno
d’Italia nel 1902. Prima della rete idrica, nelle case l'acqua veniva
conservata in grossi orci panciuti di terracotta dalla bocca molto larga
dove si immergeva l'inconfondibile mestolo di rame o di alluminio, per
attingere con parsimonia e non sprecare il liquido prezioso. Ci si lavava in
poca acqua nel bacile di rame o di ferro smaltato ed avere in casa il
gabinetto con pozzo nero era lusso di pochi. Le malattie gastro-intestinali
e in particolar modo le febbri tifoidee, causavano ogni anno numerose
vittime, specialmente nella stagione estiva. La mortalità infantile era
impressionante ed i decessi si contavano a decine di migliaia. La presenza
delle cisterne e dei pozzi privati, con le loro acque stagnanti,
rappresentava il substrato ideale per lo sviluppo della zanzara anofele,
causa del diffondersi della malaria che, nelle zone rurali rappresentava una
delle principali cause di morte.
La
fontana pubblica :
Segni particolari: altezza 128 cm., base circolare 38 cm, forma leggermente
conica, corredata di cappello e vaschetta di recupero delle acque,
totalmente in ghisa, rubinetto a getto intermittente con meccanismo interno
in ottone, frutto dell’ingegno degli uomini che hanno fatto l’Acquedotto
Pugliese. Parliamo del simbolo dell’Acquedotto Pugliese, la storica
fontanella che tante piazze della Puglia e del meridione conoscono e che ha
portato la prima acqua salubre pubblica in Puglia e che, ancora oggi,
rappresenta l’icona indiscussa di questa epocale conquista sociale. Una
storia che ha inizio nel lontano 1902, con la legge per la costruzione e
l’esercizio dell’Acquedotto Pugliese in cui si dispone che : "il Consorzio
dovrà costruire a sue spese in ciascun comune, in numero proporzionato agli
abitanti, fontane gratuite per il pubblico, restando in facoltà del comune
di disciplinarne l’uso, ed a suo carico il pagamento dell’acqua". Il
regolamento e il capitolato per la costruzione e l’esercizio dell’Acquedotto
Pugliese, approvato con Regio decreto nel 1904, ne disciplina la
installazione, "in ragione di una per ogni 2500 abitanti nei grossi centri
che ne contano più di 20 mila, una per ogni 1500 nei comuni di popolazione
compresa tra i 10 e 20 mila abitanti, ed infine una per ogni 1000 abitanti o
meno nei centri minori". "Ogni fontanella - si legge ancora nel regolamento
- non dovrà erogare meno di 25 metri cubi d’acqua al giorno e sarà a luce
tassata, mediante apposito rubinetto idrometrico, e l’acqua dovrà essere
pagata dai comuni al prezzo di 0,20 lire".
Qualche considerazione sul tema
: La memoria mi rimanda alla realtà di quando ero un ragazzo e al
confronto tra i consumi di acqua oggi e nel passato. Raccogliendo le memorie
storiche degli anziani ( dei miei nonni materni e dei miei genitori in
particolare ) e facendomi raccontare come avveniva l’approvvigionamento
idrico. Un tempo procurarsi l’acqua non era
così semplice come lo è al giorno d’oggi; l’acqua, nonostante non fosse
ancora una risorsa in via di esaurimento come lo è in questi tempi, veniva
sempre risparmiata, spesso riutilizzata, e mai sprecata, soprattutto in
tempi di guerra. Coloro che abitavano in campagna avevano dei pozzi che
venivano alimentati dall'acqua piovana che ristagnata era filtrata e sempre
fresca. Oppure i pozzi potevano essere alimentati da sorgenti sotterranee.
In entrambi i casi, chi poteva metteva dei tubi per creare impianti idrici
per fare in modo che l'acqua arrivasse dal pozzo direttamente in casa. In
altri casi si usava montare una pompa a mano che tramite una leva agiva su
un pistone che in alzata aspirava e in compressione espelleva l’acqua da una
tubazione ricurva verso il basso che consentiva di raccoglierla in un
secchio o altro recipiente. Chi invece non si poteva permettere ciò, doveva
prendere l'acqua dal pozzo con i secchi aiutandosi con le carrucole.
Personalmente ho vissuto quelle realtà contadine e mi ricordo che nel
vigneto che mio padre accudiva a in zona Camascia ( attuale Camastra) vi era
una cisterna tipica della campagna Salentina posta a ridosso te nu
furneddru, ( una costruzione a secco a forma tronco conica ),
rialzata a forma circolare e anch’essa tronco conica, la cui superficie
superiore era intonacata con una leggera pendenza verso il centro ove vi era
la bocca centrale munita di sportello per la chiusura o di una griglia
ferrosa con un muretto tutt’intorno e alla cui base vi erano praticati i
fori che immettevano all’interno l’acqua piovana che si raccoglieva in
superficie. Tutto questo permetteva di avere una discreta riserva d’acqua da
attingere con l’uso di un secchio di latta zincata a forma conica legato a
una fune . I secchio poteva essere anche cilindrico, di latta ferrosa,
ricavato dai contenitori di sarde salate e quasi sempre arrugginito in più
punti, ( mio padre ne aveva diversi, due dei quali perennemente legati al
manubrio della sua bicicletta che conservo ancora ) . L’uso che se ne faceva
era duplice, si attingeva per berla e per stemperare il verderame in un
pilone di pietra tufacea intonacato e con l’aggiunta di calce per il
fissaggio sulle foglie delle vigne quando si effettuavano le pompature ( le
irrorazioni ) per i trattamenti periodici anticrittogamici e
antiparassitari. C’è da considerare che la raccolta dell’acqua piovana
portava con se piccoli detriti che si accumulavano ad opera del vento sulla
superficie della cisterna che uniti a piccoli animaletti finivano
inevitabilmente sul fondo dove di accumulavano formando inevitabilmente una
poltiglia organica che si scioglieva dando all’acqua un sapore un po’
dolciastro per opera dei batteri. Ciò nonostante la si beveva senza tante
remore giacché non vi era altra alternativa. Mi ricordo che un anno durante
la vendemmia, quando il sole vicino allo zenit picchiava inesorabile la sete
si faceva sentire incessante. Nell’attingere, io, in qualità di portatore
d’acqua che era il servizio dei ragazzi, scoprii che vi era un comune
serpente nero, di quelli che si trovano spesso nelle campagne salentine che
si muoveva veloce sulla superficie, vittima anch’esso della stessa sete
degli umani restandovi intrappolato. Ovviamente avvisai tutti i presenti
della presenza estranea nell’acqua, ma a memoria , pur con qualche
riluttanza nessuno rifiutò di bere. Con certezza posso dire che io non bevvi
giacché avevo una fobia per i serpenti che me la porto dietro tutt’ora . Una
volta, quando la fatica era condita dal sudore della fronte non si era certo
schizzinosi come lo si può essere ai giorni nostri , pertanto ….. !
Quando lo stesso lavoro lo si faceva nel fondo di Jala nel
territorio agricolo tra Parabita e Alezio , che era un fondo te lu
nonnu Vantura, ( di mio nonno Bonaventura ), la risorsa idrica
consisteva in due pozzi di acqua sorgiva situati a un centinaio di metri tra
loro e ci si avvaleva dell’uso di un secchio di medie dimensioni con
attaccato a una parte del manico di un peso che agevolava il riempimento
quando veniva a contattato della superficie sul fondo del pozzo ( profondo
mediamente tra cinque e otto metri a seconda della stagione ). Mi ricordo il
peso che il nonno Vantura ( Bonaventura ) vi aveva
attaccato col ferro filato cotto consisteva in due grossi bulloni ferroviari
che si usavano per le giunture delle rotaie della linea ferroviaria Sud -
Est che passava e passa tutt’ora sul territorio del nostro paese, ( come li
avesse avuti è un mistero ). L’altro oggetto utile e indispensabile era una
carrucola di legno d’ulivo ( la trozzula te ulia ) legata a un gancio
fissato a un palo o a un grosso ramo di ulivo come nel nostro caso, posto di
traverso tra il terreno in cui era conficcato e il bordo in muratura del
pozzo. Una volta finita l’attività in campagna si smontava il tutto e lo si
portava a casa. Comunque resta il fatto che un tempo procurarsi l’acqua era
inevitabilmente molto difficoltoso. Ai primi del secolo scorso quando mio
nonno Vantura “ ( Bonaventura), Cavaliere di Vittorio Veneto “ era partito
per il fronte, “ - lui si che l’ha fatta veramente la guerra ! -”. L'acqua
era considerata un bene prezioso fondamentale e di conseguenza usata con
parsimonia e trattata con rispetto. Le mie reminescenze mi portano a
considerare altri aspetti dai racconti di mio padre che quando voleva farmi
osservazione su un possibile spreco dì acqua soleva raccontarmi di quanto
fosse gravoso l’impegno di andare a prenderla al pozzo in contrada Tisciano
verso l’uscita del paese in direzione Parabita. Non c’era alternativa,
pertanto occorreva andare a prenderla dai pozzi, situati in alcune zone del
paese, riempirne grandi secchi e portarseli a casa, dove venivano svuotati
in bacinelle o in otri di terracotta per i vari bisogni. Spesso la mattina
si alzava di buona lena e si recava al pozzo per riempire na capasa
( un otre di terracotta panciuto ), già pesante di per de stesso che metteva
in spalla e na menza ( un recipiente di latta zincata di circa
dieci litri ) che trasportava fino a casa. Sovente l’operazione andava
ripetuta per diverse volte nell’arco di una giornata visto che il volume
d’acqua complessivo non soddisfaceva il fabbisogno. L’acqua veniva usata per
cucinare, ma anche per lavarsi , la scarsa quantità procurata era sempre
insufficiente ai bisogni della famiglia pertanto veniva utilizzata solo per
le necessità fondamentali quotidiane: bere, cucinare e lavarsi; “ non era
abitudine ” , precisava mio padre, sprecarne diversi litri solo per bagnare
qualche vaso contenente qualche piantina di erbe aromatiche da usare in
cucina o per dei fiori. Per irrigare i vasi si usava l’acqua dove magari
ripetutamente ci si lavava le mani o i piedi per rinfrescarsi purchè non
fosse saponata. Anche quando si trattava di lavarsi il corpo (solitamente
una volta a settimana) si scaldava un po’ d’acqua intra allu
quatarottu ( pentolone di alluminio capiente ) allu focu
sotta allu focalire , ( al fuoco del camino ) poi si riempiva una
bagnarola e la famiglia intera poteva finalmente fare un bagno “ a turno
sempre nella stessa acqua o al massimo la si cambiava ogni due persone e con
l’uso di un pezzo di sapone di marsiglia . Alcune famiglie usavano
fabbricarsi il sapone in casa con l’uso di olio di oliva stantio mischiato
sovente a quello usato per frittura filtrato e con l’aggiunta di soda
caustica. Tutto era mirato all’economia di quei tempi in cui la vita era
dura . Per lavare i panni, invece si usava un po’ d’acqua fredda intra alla
pila ( un contenitore statico e pesante ricavato mediante stampi in cemento
misto a breccia di sezione piccola) , e come lavatoio di usava lu stricaturu
( una tavola di legno di ulivo la cui superficie era intagliata a fasce
parallele triangolari ) sulla cui superficie si comprimevano strofinando i
panni bagnati e intrisi con un po’ di sapone e tanto “olio di gomito”
necessario per rimuovere lo sporco dai vestiti. Le azioni per la raccolta
dell’acqua richiedevano tanto tempo e fatica ed è sconcertante pensare
quanto abbiano impegnato la gente di quell’epoca, che erano “costretti” a
compierle sin da piccoli per le difficili circostanze in cui vivevano.
Questo fa riflettere molto sul benessere in cui siamo abituati a vivere oggi
senza nemmeno rendercene conto. Lo spreco dell’acqua veniva visto nelle
famiglie come qualcosa di impensabile: non ci si lavava i denti facendo
correre l’acqua! Anzi si ignorava quasi totalmente l’uso del dentifricio , e
….altro che tutti i giorni! Personalmente ho cominciato ad usarlo quando
partii per il servizio al militare. Sicuramente si facevano meno docce o
bagni e …. per lo shampoo, non parliamone ! In casa mia ( e non solo ) si
lavava tutto a mano con il sapone di marsiglia che si usava per tutto ,
anche per lo shampoo. Prodotto unico e pulizia assicurata! Nel quotidiano
tutte le vicende erano comunque condite da un grande rispetto per quel
nobile elemento! Quella dura realtà ha colpito anche me negli anni sessanta
in quanto noi non avevamo una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana
come qualche altra famiglia un po’ più fortunata poteva avere nel vicinato e
tutto il nostro fabbisogno dipendeva esclusivamente nel poterla attingere
alla fontana pubblica dell’Acquedotto Pugliese rionale della Longa che di
trovava a circa mezza costa sulla salita che portava dalla piazza principale
alla collina di Montegrappa.
Qualche divagazione sul tema
: A proposito di cisterna : quella che vi era a casa dei miei nonni
materni era un capolavoro per quei tempi, nel senso che era molto capiente e
conservava un volume d’acqua di tutto rispetto. Spesso vi attingevano anche
le vicine di casa ma il pregio maggiore stava nella freschezza della sua
acqua. Vi si attingeva con un secchio di piccole dimensioni munito
te nu croccu ( serie di ganci di ferro ) per agevolare il
riempimento e la solita carrucola di ferro agganciata a una semplice
struttura di ferro ad arco che sovrastava la bocca della cisterna. Per la
cronaca : lu croccu serviva per recuperare il secchio dal
fondo della cisterna qualora la fune si spezzasse. In piena estate quando la
calura si faceva sentire insieme alla sete, facevo volentieri una deviazione
per andare a trovare i miei fantastici nonni e per poter usufruire di una
buona bevuta. Si attingeva al momento e si beveva direttamente portando il
bordo del secchio gocciolante alle labbra con grande soddisfazione e
refrigerio anche se la nonna non voleva che bevessimo in quel modo. Una
volta appena arrivato notai che il secchio era quasi pieno e sulla
superficie vi era una vespa bella grossa totalmente immobile. Prima di bere
la presi tra due dita per toglierla e buttarla da qualche parte. La vespa
era viva, vegeta e incavolata in quanto evidentemente avevo disturbato il
suo refrigerio. Il risultato fu una puntura sul pollice che da lì a qualche
minuto diventò mostruosamente gonfio e dolorante, un dolore acuto come se
fossi stato punto da un ago rovente. Ero un ragazzo e non potei fare a meno
di piangere con la preoccupazione di mia nonna Fiorentina che mi consolò:
veni a quai ca mo te fazzu cu te passa. (vieni qua che
adesso te lo faccio passare) . Non ricordo con quale metodo curativo
intervenne, probabilmente mi strofinò un po’ di aglio appena sbucciato,
all’epoca era quello il metodo di pronto intervento per simili
inconvenienti. Comunque dopo un buona mezz’ora anche se il dito rimase
gonfio, il bruciore andò scemando. Ultimo commento della nonna : dra
fatente te vespa! E bà cu pungi lu vagnone …. !! ( quella fetente
di vespa ! E vai a pungere il ragazzo … ) !! A pensarci bene avrebbe
potuto darmi dello “ stupidino “ per aver preso così ingenuamente
l’animaletto con le mani ma ebbe solo parole di conforto e si prodigò nelle
cure. Io lo sapevo che in qualche modo ero il suo cocco, prima di tutto ero
bravo e servizievole, mi comportavo bene e andavo a trovarli spesso, vi era
un bellissimo rapporto tra di noi e poi oso pensare che avessero un occhio
di riguardo per me che ero il solo nipote maschio.
Cronache
familiari a quei tempi : “Mò prima cu faci li compiti e
cu bai cu sciochi, famme almenu tò jaggi te acqua ca s’ave quasi spicciata
“ . ( Adesso prima di fare i compiti e di andare a giocare, fammi almeno due
viaggi di acqua che è quasi finita ) !! Era il giornaliero e alla lunga
anche ossessivo comando di mia madre che giustamente pretendeva da me la
cieca obbedienza per quell’incombenza. Certe volte, invece di due viaggi ne
ordiva tre o quattro , potete immaginare quanta fatica e quanto tempo mi
portava via quell’attività ed era tutto tempo tolto al gioco, un’attività
sacra per me che, in quanto capobanda avevo delle “responsabilità” verso gli
amici che attendevano con ansia la mia presenza. Sovente, in principio, al
comando seguiva il rifiuto di obbedienza e poi, quando l‘insisteva la
portava al limite di farmi assaggiare la scopa di canne sul groppone che era
il suo miglior deterrente, mia madre al massimo scendeva in trattativa. Si
partiva dalla pretesa di tre jaggi t’aqcqua ( tre viaggi di
acqua ) e magari riuscivo a spuntarne uno col resto di due che andavano
fatti e senza ulteriori sconti. Il rifiuto totale era escluso perché, dopo,
dovevo fare i conti con mio padre e…. credetemi, era meglio evitare! Ogni
jaggiu ( viaggio ) consisteva nel portare a casa tò
menze t’acqua ( due recipienti in lamiera zincata d’acqua di circa
dieci litri l’uno ) e in salita per giunta . Il primo viaggio serviva a
versare l’acqua intra allu stangatu te crita ( nel recipiente di creta )
dove tutte le volte che qualcuno aveva sete, andava a bere con un mestolo di
alluminio appeso sul bordo del contenitore stesso. Purtroppo c’era da
aggiungere i tempi morti e di attesa alla fontana dove immancabilmente vi
era una fila di persone tutte con lo stesso obiettivo finale. Portare a casa
un po’ d’acqua ! Inevitabilmente intorno a questa attività quotidiana si
aggiungeva anche un po’ di folclore nel senso che le donne chiacchieravano e
le chiacchiere mettevano in evidenza i vari caratteri e spesso e volentieri
lo spazio antistante la fontana diventava luogo di ritrovo e di svago col
chiacchiericcio continuo. Un ritrovo alla pari di quello che si esercitava
la sera in piazza caratterizzato però dalla quasi esclusiva presenza del
pubblico maschile. Lì veniva fuori il meglio e il peggio delle persone a
seconda che qualcuno dei presenti scivolava in discorsi te malangu
( di parlare male degli altri ) che potevano sfociare anche a risse verbali,
insulti e parolacce. Io tutto questo me lo godevo in silenzio e mi dava modo
di meditare sui diversi aspetti verbali che le mie orecchie erano costrette
a sorbire. Il più delle volte sogghignavo all’udire di certi sproloqui,
insomma, cercavo di trarre un po’ di divertimento da quegli alterchi verbali
assai coloriti! Per la cronaca, verso la metà degli anni sessanta con i
risparmi di mio padre che nel frattempo era emigrato in Svizzera come
lavoratore stagionale, ampliammo la nostra abitazione con la costruzione
della la cucina e della caseddra ( piccolo locale
sopraelevato sulla cucina ) da adibire a deposito di derrate alimentari.
Poco prima dei lavori di costruzione effettuammo lo scavo per la tanto
desiderata cisterna avvalendoci della maestranza di mio zio Carmelo Rocca.
L’approvvigionamento alla fontana continuò ma con meno intensità e quello fu
un altro traguardo del benessere che si stava delineando nella nostra
famiglia. I miei pensieri mi portano a qualche ricordo di carattere
famigliare in tema di acqua, per esempio quando mio padre faceva diversi
jaggi t’acqua cu la bicicletta ( carichi d’acqua col la
bicicletta ) dalla fontana rionale fino all’altezza del campo sportivo sulla
via che porta a Neviano dove avevamo un pezzo di terra e un orto per il
fabbisogno famigliare. Caricava alcuni contenitori in una cassetta di legno
legata dietro al portabagagli e in aggiunta anche tò sicchi te sarde
salate allu manubriu ( due secchi ricavati dai barattoli di sarde
salate al manubrio ). Armato di tanta buona volontà si avviava col prezioso
carico spingendo la bicicletta per tutta la salita e fino al sito finale.
Potete immaginare quanti jaggi te acqua ttuccava cu face, minimu pè menza
sciurnata ( viaggi doveva fare, minimo per mezza giornata ) ma la passione
era tanta e ancora di più era l’esigenza di portare a casa qualcosa per
mangiare. Vorrei inoltre far notare che i due secchi pieni d’acqua al
manubrio erano per così dire “ a cielo aperto “ per cui pur con la dovuta
accortezza per non far tracimare l’acqua a causa degli inevitabili scossoni
della bicicletta, inevitabilmente un po’ di acqua andava perduta, on po’ per
terra, un po’ sulle scarpe e un po’ sulli cazzj rrepazzati
( sui pantaloni pieni ti toppe ). Come si può immaginare, dopo due o tre
viaggi stava abbastanza al fresco. Molti quando lo vedevano arrancare in
salita a pieno carico in atto di fare il trasportatore del prezioso liquido,
un po’ lo compativano ” lo so per certo “ ma il sentimento dominante era
quello di ammirazione per la dedizione al suo lavoro anche sotto
quell’aspetto. Per risparmiare tempo, quando ritornava scarico alla fontana
, essendo il percorso per metà in pianura e per metà in discesa, lo faceva
totalmente in bicicletta e affrontava la discesa col proprio mezzo
aggrappato al manubrio e soprattutto ai freni con le bacchette piegate con
la tenaglia per meglio aumentare l’attrito te le scarpette te li
freni ( i pattini dei freni ) sui cerchioni delle ruote .
Ovviamente vi era una buona dose di rischio per una scarsa frenata e infatti
una volta proprio nel punto più critico della discesa, in piena curva ,
essendo a quell’epoca il fondo stradale in terra battuta piena di granelli
di tufo sfarinato , scivolò e cadde in malo modo picchiando la testa dalla
parte della nuca con relativa ferita e forte emorragia, più altre
escoriazioni e perdita di sensi. Fu portato a peso morto dagli astanti fino
a casa nostra che distava meno di cinquanta metri con la colonna sonora
degli urli di mia madre disperata contro la malasorte. Fu adagiato sul
pagliericcio steso per terra appena dietro la porta principale a sinistra e
fu medicato alla meglio come era nei mezzi un po’ scarsi. Inutile dire che a
quei tempi non sapevamo neanche cosa volesse dire “ pronto soccorso “.
L’unico pronto intervento certo e funzionante ( e a volte neanche ), era
quello di affidasi alte Alte Sfere Celesti o al Santo di cui si professava
una incondizionata e devota fiducia. Potete immaginare la preoccupazione e
la disperazione di mia madre quando ave vistu lu Saiu a drè condizioni. ( ha
visto Cesario in quelle condizioni ). Tutta trafelata e disperata mi disse:
Fijuu meu , vanne subitu allu tuttore Rricu e dinne cu bene mprima
ca sirata ghè catutu, ave binchiatu cu la capu, sà feritu e sta nde esse
sangu, ( figlio mio , vai subito dal dottor Enrico e digli di
venire subito perché tuo padre è caduto, ha picchiato la testa, si è ferito
e sta sanguinando ) . Ricordo che dal dottore ci andò qualcun altro del
vicinato , non ricordo chi fu, io ero sotto shock. E’ emblematico il
comportamento dei vicini, sempre uniti nel bisogno e nella solidarietà.
Quando c’era un problema tutti lo sentivano come se fosse un loro problema e
la collaborazione a risolverlo era diviso tra tutti con grande
partecipazione. Lo spavento in famiglia fu grande ma tutto si risolse per il
meglio. Per fortuna papà rinvenne, gli furono somministrate le cure con la
somministrazione te penicillina e te sulfamedici ( di
penicillina e sulfamidici ) e anche se dietro consiglio del medico restò a
riposo forzato per almeno due giorni in stato febbrile, “ una vera tortura
per lui che non perdeva mai una giornata di lavoro, in seguito si riprese e
tornò alle sue attività consuete.
Nota : Per questa occasione, stavolta ho voluto trasgredire
il solito schema di presentazione del lavoro di pittura e di seguito ho
voluto inserire in questo commento una foto “storica” di mio padre nell’atto
di attesa per salire in bicicletta e tornare a casa dopo una giornata di
lavoro. Quella volta ero andato in campagna a trovarlo in motorino con le
mie figlie Simona e Daniela ed ebbi la grande ispirazione a ritrarlo nel suo
“elemento naturale ” . Ovviamente ho ritenuto opportuno il suo inserimento
perché è anche attinente al tema del dipinto. In essa traspare l’essenza
della sua esistenza di vita dedicata al lavoro “era un artista della zappa”
con cui ha speso tutte le sue energie “ pè lu bbene te la famija
“ ( per il bene della famiglia ) usava dire. Tipico il portamento: un po’
incurvato, con le braccia scoperte e cotte dal sole così come la sua faccia
di brava persona cu lu pospuru a mmucca e la coppula a ncapu
( col fiammifero in bocca e la coppola in testa ). Si appoggia alla sua
bicicletta di cui era geloso e a cui dedicava le giuste cure per
l’efficienza del mezzo. Dietro il portabagagli vi è infilata “ l’arma bianca
“ del momento, na sarchialura ( zappa per sarchiare ) e
nu saccu te cannavazzu rrotulatu , ( e un sacco di canapa
arrotolato ). Appesi al manubrio li sicchi te sarde ( i
secchi di sarde) di cui ho avuto modo di parlarne poco prima e la giacca
appoggiata di traverso.
Nonnu Saiu Malorgio ( Cesario Malorgio 1917-1999 ) Primavera 1992 allu Pinculu il fondo adiacente sulla strada che da Montegrappa porta a Neviano
E ora un commento del dipinto : Ho la certezza che
oggi molta gente ignori completamente quelle vicende che accomunavano quasi
tutti in quel tessuto sociale della civiltà contadina . “Cose d’altri tempi”
si dirà, a chi vuoi che possano interessare! E’ la triste realtà dei giorni
di questo terzo millennio, dove le nuove generazioni abbagliate e forviate
dalle nuove tecnologie e dalle tante dissacranti teorie moderne del “nuovo
vivere”, vedi la teoria del Gender e del “Pensiero Unico “ così come lo
aveva battezzato papa Giovanni Paolo II dove l’uomo si è sostituito a Dio e
che pian piano vogliono inculcare nelle nuove generazioni, che dribblano
l’interesse di voler conoscere il nostro non lontano passato, quando la
gente professava la fede cristiana e i valori umanitari scaturiti dal
Vangelo erano vivi e sentiti. Valori sempre attuali che potrebbero tornare
utili per poter meglio capire il presente in prospettiva del futuro. E’
sempre latente il concetto di storia, in questo caso dei nostri avi e quello
che hanno dovuto patire in quell’eterna sofferenza di vita vissuta nelle più
abbiette indigenze ma che hanno potuto costruire passo dopo passo e con
tanti sacrifici le conquiste e lo stato di benessere di cui ora beneficiamo.
Dovremmo ogni tanto dare uno sguardo al passato, se non altro, per una
questione etica e di rispetto dovuto per il vissuto dei nostri progenitori.
Quelli della mia età queste cose le hanno vissute almeno in parte sulla
propria pelle nella buona e della cattiva sorte e non vanno certo additati
come gente che volutamente si disinteressa di questo genere di cose. Cose
vecchie ormai , certo! Ma ricordare il passato non è mai stato vano per
nessuno. Io c’ero! Posso dirlo e testimoniarlo! Magari non faccio testo per
la mia particolare indole di artista sempre irrequieto, possono ormai
annoverarmi e identificarmi a un dinosauro , un essere d’altri tempi ma per
certo amante di questa terra che ha segnato il mio DNA di figlio del Sud
nato e cresciuto in una famiglia contadina e cattolica. E ancora adesso , a
sessantanove anni, sono ancora capace di farmi suscitare il cocente
desiderio di illustrare quelle vicissitudini della nostra vita attraverso
una semplice scena sulla tela, in questo caso presso una fontana pubblica,
proprio quella in cui attingevo, quella nostra, te susu alla Longa
( sopra, in contrada Longa ). Una fontana tipica dei nostri paesi, quella
fusa in ghisa e con in rilievo l’emblema del fascio littorio di epoca
mussoliniana. Una fontana di antica storia che ha impregnato indelebilmente
la nostra società di estrazione contadina da cui gran parte di noi deriva e
che ha contribuito unitamente alle fatiche immense dei nostri avi a dare
un’impronta indelebile di riscatto al nostro Salento. I personaggi sono
ovviamente inventati, le due vecchiette sono emblematiche e quello che conta
è l’atto di attingere, l’una con due mbili ( terracotta dal
collo stretto ) e l’altra cu dò menze ( con due recipienti
di lamiera zincata ) nell’atto di appoggiarle per terra in attesa di
riempirle quando l’altra vecchietta avesse terminato di attingere. Il
vestiario è quello tipico delle nostre nonne , eternamente con abiti scuri o
neri talvolta stinti dall’usura, con l’immancabile mantera
( grembiule ) e l’atteggiamento è un po’ dimesso, un po’ per la stanchezza e
l’impegno gravoso : tò menze ( due recipienti di lamiera )
erano sempre venti kili da portarsi dietro e per la maggior parte della
gente in salita, poi c’e il fatto ineluttabile dell’età, evidenziata dalla
loro pelle rugosa e pertanto non sprizzano certamente gioia e avvenenza. Per
quanto riguarda il disegno te le menze t’acqua di cui si è
quasi perso il ricordo della loro esistenza, mi sono avvalso di una coppia
autentiche te menze, proprio quelle che adoperavamo in
famiglia più di mezzo secolo fa, ( due veri cimeli ), che la mia
lungimiranza mi ha dettato in tempi passati la loro conservazione. Per la
posa delle mani sui manici ( la parte più difficile del disegno ) mi sono
avvalso del mio amico Pantaleo Nicoletti che ringrazio di cuore e che ha
posato per me cu le menze a manu ( con i recipienti tra le
mani ) nello stessa posa che intendevo riportare sul disegno della
vecchietta curva. Il primo commento di Pantaleo è stato : ma ieu
tegno li mani piccicchi ( ma io ho le mani piccole ) che più che
piccole intendeva dire che le dita sono corte nel senso che le ha
letteralmente accorciate con gli incidenti sul lavoro , sulle macchine di
falegnameria dato che esercita quella professione da oltre mezzo secolo. La
mia risposta : nu te preoccupare Pantaleo ca tantu le mani ca aggiu
fare suntu quiddre te na vecchiareddra, quindi su piccicche ( non
ti preoccupare Pantaleo che tanto le mani che devo disegnare sono quelle di
una vecchietta , quindi sono piccole ) . Per dare corposità alle volumetrie
del disegno ho aggiunto un secchio di latta zincata che ipoteticamente
appartiene ad altra persona “ fuori campo “ .
Una
precisazione e qualche riflessione : Nelle mie reminiscenze ho
cercato di ricordare qual’era l’ambiente circostante ove era ubicata la
fontana te la Longa, ca stia propriu te fronte alla casa te lu
Cosiminu Miggianu – lu Cosiminu guardia - e de fijusa l’Albinu, amicu meu e
cumpagnu te sciochi, ( del rione Longa , che stava proprio di
fronte alla casa di Cosimo Miggiano – detto : Cosiminu guardia - guardia
municipale - e di suo figlio Albino, amico mio e compagno di giochi ). Un
po’ di anni fa è stata divelta come la maggior parte delle fontane di
Tuglie, quasi una cancellatura di una pagina della nostra storia. Che
tristezza !! Così va il mondo, la mancanza di sensibilità e l’impoverimento
intellettuale per i trascorsi storici porta inevitabilmente
all’insensibilità e all’oblio delle passate vicende della nostra gente. Io
fermamente penso che se anche l’avessero lasciata lì dov’era, che fastidio
mai poteva dare? In fondo si trattava di un monumento storico ma si sa , la
storia è materia indigesta e allora : meglio cancellarla !! Ricordo che
era quasi a ridosso del muro di contenimento del podere del dottor Mosco e
la vasca in cemento era distanziata dal muro di circa un metro, utilizzato
per la costruzione di una navetta , ( un fondo
semicircolare in cemento ) per il drenaggio dell’acqua piovana verso la
parte bassa del paese. Ricordo anche che il muro era te petre a
siccu ( di pietre calcaree incastrate a secco ) dove nella buona
stagione, dalle fessure fuoriuscivano fili d’erba da campo spontanei e
qualche piantina che in primavera sfociava in una fioritura di piccolissimi
fiori multicolori, ma in massima parte erano piante di ortiche che una volta
irrobustite fiorivano anch’esse. Il muro in alto ( almeno tre metri ), era
sormontato da una fila te cuzzetti , ( mattoni da
costruzione di tufo ) grezzi, ingrigiti e corrosi dal tempo. L’impianto
della fontana era appoggiato su un fondo di cemento ed era bordato da un
piccolo muretto di contenimento anch’esso in cemento con una piccola griglia
per il reflusso dell’acqua in eccesso che immancabilmente fuoriusciva dalla
vaschetta di recupero durante le operazioni di attingimento. Ho cercato di
rendere visibile tutto ciò e onestamente non so fino a che punto sia
riuscito nel mio intento . Spero comunque che qualcuno apprezzi almeno lo
sforzo che ho profuso per la sua realizzazione animato dal solo desiderio di
rendere visiva una pagina della nostra storia …… sempre con la formula :
Prima che sia troppo tardi !!!.
Nota finale e dedica : Questo lavoro vuole essere un
tributo alla memoria dei miei genitori e a quanti hanno condiviso con noi
della famiglia Malorgio le stesse storie di famiglie contadine povere,
tenaci , dal cuore grande e munite di buoni sentimenti. Là, sul rione Longa
a cui va il mio struggente ricordo !
Ringraziamenti : Grazie a quanti vorranno
leggere queste mie reminiscenze e ancor di più a quanti apprezzeranno questo
mio scritto. Grazie al mio amicissimo Pantaleo Nicoletti
che ha reso possibile la realizzazione di questo lavoro . Un grande grazie
all’amico Felice Campa che con tanta passione e sensibilità
per questo genere di cose, un po’ artistiche e un po’storiche, sicuramente
raccontate con passione che ancora una volta mi ha gentilmente ospitato su
questo bellissimo sito che è un po’ il biglietto da visita della nostra
Tuglie, anzi, della mia Tuglie che porto sempre nel cuore. Termino con un
saluto a tutti i tugliesi residenti e non e un abbraccio a tutti i miei
amici e compagni di tante avventure che da sempre mi onorano della loro
amicizia :
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Tuglie...per raccontar paese...
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