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Tuglie...per raccontar paese...
La Storia che si fa racconto, e il racconto che può farsi Storia:
La vita a Tuglie negli anni della grande emigrazione, 1950-1980.
In una società, quella tugliese degli anni ’50, scandita ancora da ritmi atavici, battuti dall’orologio stagionale delle semine e dei raccolti, era impercettibile la sensazione di cambiamenti epocali.
L’istruzione elementare era diventata giuridicamente obbligatoria, ma rimaneva praticamente “facoltativa” in dipendenza delle reali condizioni economiche di ogni singola famiglia: la dispersione scolastica si fregiava ancora della percentuale maggioritaria rispetto alla frequenza abituale delle aule del “Largo Fiera”.
Eppure le “cose” tugliesi stavano cambiando…
L’età della ragione, che il Catechismo di Pio X faceva coincidere con il raggiungimento dei sette anni, si conquistava con il sedere tra i banchi della prima elementare: cominciava in questo modo la capacità di osservare, di analizzare, di ricordare, tutte facoltà intellettive collegate con la nuova e più esaltante realtà di socializzazione tra coetanei, diversa e più stimolante di quella famigliare, dove la coabitazione di nonni, genitori e nipoti, se da un lato consolidava i rapporti affettivi, di certo non forniva molti stimoli alla fantasia dei fanciulli.
Ricordo così gli anni ’50, gli anni della mia prima formazione scolastica. Anni belli, che ti aprivano gli occhi a tutto ciò che era al di fuori delle mura domestiche, ma furono anche gli anni che mi fecero avvertire lo spiacevole sentimento del distacco: il mio compagno di banco di prima e metà seconda elementare, lasciò definitivamente Tuglie per emigrare in Belgio con tutta la sua famiglia. Nei successivi anni delle elementari registrai, rattristato, altre partenze all’estero e, soprattutto, al Norditalia; non ho mai più visto quei compagni, allora bambini come me, oggi, come me, quasi settantenni…
E lo stillicidio di partenze, numerosissime in tutti quegli anni, in seguito un po’ di meno, sfilacciavano la tenuta di consuetudini sociali arcaiche che, pur dovendo fare i conti con una misera realtà economica, tuttavia tenevano saldi i rapporti parentali e famigliari in un’identificazione unitaria: “li Tujisi”…
Se l’emigrazione diretta in Svizzera era quasi vista da tutti come transitoria, momentanea, perché così inizialmente si presentava nelle sue caratteristiche di stagionalità, quella verso la Francia e il Belgio – l’esodo verso la Germania è venuto abbastanza tempo dopo – aveva già il sapore, per via anche della maggiore lontananza geografica, di un allontanamento definitivo, esattamente come quello che si era registrato a cavallo fra ‘800 e ‘900, verso gli Stati Uniti d’America.
Quali furono le “reazioni” del paese davanti a questo fenomeno così antico nella sostanza e così nuovo nella forma? Non potei avere consapevolmente il polso della situazione data la mia giovanissima età; tuttavia percepii il senso del disagio di tanti miei compagni le cui famiglie si erano “separate”: i padri, o addirittura entrambi i genitori, all’estero ed essi affidati alle cure delle sole madri, crudelmente ma realisticamente denominate “vedove bianche”, ma spesso accuditi da nonni o anziani zii che a distanza forse di decenni si dovettero reinventare genitori.
A fronte di questa amara realtà sul piano affettivo, si ebbe un cospicuo impulso alla crescita socio-economica, con benèfici effetti anche nella consistenza urbanistica, tant’è che la lunghezza perimetrale del paese si triplicò, forse anche di più. Nondimeno il livello medio di istruzione migliorò, soprattutto in conseguenza dell’istituzioe della Scuola Media Unificata, voluta dalla Legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 ed installata a Tuglie nel 1964 a causa di tentennamenti e temporeggiamenti dell’Amministrazione Comunale dell’epoca, tanto che fu persino necessario il perentorio intervento del Prefetto, su sollecitazione del Provveditorato agli Studi di Lecce.
Nonostante il calo demografico attestato dal saldo negativo delle emigrazioni sui rientri e della mortalità sulla natalità, il paese godette di una tale vivacità produttiva in ambito commerciale e piccolo-industriale che fu uno dei primi del circondario a dotarsi di una zona destinata ad aziende e piccole fabbriche. Anche sul versante aggregativo di tipo socioculturale, conoscemmo un periodo abbastanza fecondo, concretizzato in una varietà di circoli culturali e sportivi, talvolta con malcelati sottintesi politici che, tuttavia, erano in grado di alimentare il dibattito interpolitico ed intergenerazionale; era inimmaginabile allora l’appiattimento che nel salto di qualche decennio si sarebbe impadronito di una comunità da sempre vivace, qualche volta anche polemica e aspramente critica, come attestano gli archivi storici di istituzioni locali civili e religiose.
Per concludere: i cambiamenti nel periodo esaminato in questo contributo, furono certamente di tendenza positiva e costruttiva, nonostante le separazioni o gli allontanamenti di interi nuclei familari, che mai più sarebbero ritornati per restarvi definitivamente, ma i loro costanti contatti col paese d’origine contribuivano all’arricchimento socio-economico e culturale del luogo natio.
Il rientro al paese di maestranze, soprattutto dalla Svizzera, portò ad uno svecchiamento di tecniche costruttive e di altro artigianato tipicamente locale e velocizzò i tempi di realizzazione di case ed altri edifici, grazie a sistemi di maggiore efficienza già collaudati nei paesi mittel-europei. Ma ahimè, vennero trascurate le consuete abilità edificatorie che per secoli e secoli avevano caratterizzato le abitazioni salentine.
L’emigrazione tugliese, dopo l’ondata “scatenata” di quei decenni, ha conosciuto qualche anno di calo, per riprendersi, da qualche tempo, con una’emorragia dolorosa e letale, sul piano demografico, che sta comportando conseguentemente una “mortalità” nei vari settori delle attività commerciali ed artigianali, determinando la chiusura o cessazione di piccole aziende esistenti in paese sin dall’immediato dopoguerra, se non addirittura da epoca anteriore. Le conseguenze di questa ondata migratoria sono inimmaginabili e forse vogliamo negarci ad immaginarle letali, per una forma di ostinato ottimismo per esorcizzarne le paure.

(tratto da: AA.VV., Voci Migranti, a cura dell’Ass.ne Emigranti Tugliesi, Torgraf, Galatina, 2017)
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