Commento all’opera: ( Aspetti di vita contadina nel Salento - olio su tela cm-
60 x 80 ) Ottobre 2015
Ciao amici di Tuglie, è passato parecchio tempo che non pubblicavo un’opera
inerente alla vita contadina di mezzo secolo fa della nostra bellissima terra
Salentina. Alterne vicende mi hanno tenuto lontano dai miei adorati pennelli e
dalla possibilità di comunicare con voi attraverso queste pagine del “ nostro “
bellissimo sito edito dall’amico Felice Campa che mi onora della sua amicizia e
accetta la mia presenza seppure in modo virtuale in esso. L’impatto alla visione
di quest’opera è immediato per la sua trasposizione in un ambiente usuale e
avvezzo alla nostra vista. Un angolo di corte come ce ne sono tanti negli
agglomerati urbani dei paesi in cui molti dei miei contemporanei hanno vissuto e
tutt’ora vivono e spendono la propria esistenza fra le mura di questi antichi
caseggiati. In quest’opera ho voluto creare all’interno della scenografia di
corte, un’istantanea di una particolare attività di vita contadina, il lavoro di
legatura di cipolle e agli, ” ‘nfiettatura te aij e cipuddre ” come si usa
dire in lingua madre locale, che a quel tempo, ancor più che ai nostri giorni,
erano prodotti integranti nel pasto della povera gente . Per l’occorrenza mi
sono adoperato di creare la scena con diversi personaggi intenti a legare i
bulbi. Ho creato un gruppo di persone anziane, (spettava quasi sempre a loro
questo tipo di incombenza) perché l’attività richiedeva perizia nella legatura a
treccia e sistemi di conservazione particolari per questa tipologia di preziosi
prodotti della terra che, in quanto parte integrante dell’alimentazione delle
famiglie, abbisognavano di particolari cure e procedimenti per garantirne la
loro integrità nel tempo in quanto esse dovevano bastare per un anno intero,
fino alla successiva raccolta dell’anno a seguire. I volti, le loro espressioni
e gli atteggiamenti sono stati ricercati non con poca fatica , quasi tutti sono
immersi con la dovuta attenzione nel lavoro, ma vi è la “ nonna “ col vestito
nero che mentre lega il suo mazzo meccanicamente, è in atteggiamento di
rivolgere la parola all’anziano che è seduto sullo scalino di casa , insomma ,
qualche commento durante il lavoro non fa certo male…..!. Ho cercato anche di
curare nell’aspetto il tipo di abiti che erano poi quelli indossati
quotidianamente in quell’epoca , in realtà vestiti senza tempo, semplici, logori
e stinti perché i molti lavaggi e la continua esposizione alla luce abbacinante
del sole di Puglia li rendeva tali. Ho cercato di evidenziare anche il fatto che
nell’incombenza di questo tipo di attività il cui contatto con detti alimenti,
come in questo caso, producevano parecchi residui terrosi che inevitabilmente
erano attaccati alle radici delle erbacee. Ho quindi corredato gli abiti con uno
straccio appoggiato sulle gambe o dell’immancabile “ mantera “ tanto cara alle
nonne di sempre in quanto questo era il sistema più pratico in uso per salvare
il salvabile ed evitare a grandi linee l’impregnamento degli abiti. Per ultimo,
l’aspetto che colpisce l’osservatore è la quantità di particolari di cui è
satura l’immagine. Come prima cosa si nota il notevole cumulo di cipolle, in
effetti dopo la raccolta venivano scaricate dai sacchi alla rinfusa sul terreno
a ridosso del muro esterno dell’abitazione e subito dopo ci si disponeva intorno
e a ridosso per legarle. L’attività era eseguita oltre che dal proprietario
delle derrate, anche con l’apporto e l’aiuto di qualche “ comare “ del vicinato,
in un clima di aiuto reciproco e solidale . La scena ovviamente è ambientata nel
periodo estivo a discapito dei vestiti abbastanza castigati delle nonne , ma a
quei tempi il vestito era sempre quello , indipendentemente dalle stagioni . Era
inevitabile che man mano che venivano maneggiate alcune cipolle rotolavano per
terra e magari coprivano anche le scarpe o pantofole per cui ci si immergeva
totalmente nel lavoro e nel prodotto. Una piccola considerazione dal punto di
vista artistico : Potere immaginare la fatica nell’impostare il disegno e la
perizia profusa per cercare di rendere il lavoro ben rappresentato dal punto di
vista coloristico. Non mi sono risparmiato nel rappresentare vari tipi di
cipolle che hanno consentito l’uso di una buona gamma di colori legati alla loro
tipologia e ai vari tipi di legature, a mazzo o a treccia. Ho anche evidenziato
in basso a sinistra in primo piano, alcune ceste colme di cipolle senza gambo
destinate ad essere conservate in cassette di legno. Ho cercato insomma di
rendere al meglio l’immagine con la ricchezza di particolari complessivamente
piacevole alla vista e ogni cipolla o aglio è stata una piccola impresa e di “
imprese” ce ne sono davvero tante! Nell’insieme si nota un particolare fuori
tema e cioè “ na pendula te tiaulicchi mari “, ma i peperoncini sono una piccola
licenza che mi sono preso gratuitamente, un vezzo per dare un tono di colore più
appariscente nell’insieme, in effetti ci stanno proprio bene! Alla fine il
risultato è sotto i vostri occhi e dopo tanto lavoro mi sento abbastanza
appagato, sottolineo “ abbastanza “ perché il pittore non è mai soddisfatto in
pieno del suo lavoro perché esiste sempre la tendenza e il profuso impegno a
migliorarsi sempre di più. A questo punto consentitemi una piccola divagazione.
Vi siete mai chiesti perché i vecchi orologi da taschino si chiamassero
"cipolle?" Il motivo è legato al fatto che un tempo gli orologi si portavano nel
taschino legati ad una catenella che voleva rappresentare la coda della cipolla
.Per proteggerli dagli urti si ideò una chiusura esterna ed una interna che si
aprivano appunto come i veli della cipolla.
A questo punto avrei potuto terminare il mio commento sull’opera, ma la mia
mente che spazia sovente nel circondario dei siti del mio quartiere “ La Longa “
non si vuole ancora arrendere ed ecco apparirmi un’altra immagine similare a
quella raccontato sopra e, sempre rimanendo in tema di derrate alimentari, della
loro raccolta e conservazione, il mio pensiero corre alla raccolta dei legumi,
asse portante dell’alimentazione di quell’epoca. Prima però ( consentitemelo ),
desidero fare un’anticipazione di carattere filosofico/esistenziale e i miei
ricordi si involano e mi conducono inevitabilmente a un altro aspetto della vita
di contadino quale era a buonanima di mio padre Cesario “ Lu Saio te lu Rraona “
sinonimo del quartiere “ Aragona” dove era cresciuto, detto pure : “ Lu Saiu
Panecottu “ , questi erano i soprannomi “ le ngiurie” che si potrebbero
considerare i nostri titoli di casata. Io mentalmente mi sono creato un blasone
di famiglia che consiste in un semplice scudo privo di bordature, con lo sfondo
rossiccio come la terra rossa “ te le macchie ” con in primo piano disegnata una
” zappa te scatina “. Tale blasone aimè, non lascia adito a fraintesi di
appartenenza a casata nobiliare, quindi non appartenente di certo a gente
altolocata, nobile e “di sangue blu” ma a gente senza possidenze e pertanto
votata a un’esistenza fatta di duro lavoro con associati stenti e privazioni,
quindi solo ed esclusivamente a una famiglia di “ Contadini “! Comunque,
beninteso, il titolo “ Contadino “ era già un buon titolo, che accomunava la
stragrande maggioranza del paese e ti faceva sentire almeno integrato in una
comunità operante e se non altro aveva come retaggio una buona dose di dignità
che veniva spesso intaccata dai possidenti terrieri quando schiavizzavano col la
fatica e le angherie i poveri braccianti. Per certo sarebbe stato peggio se si
veniva additati spregiativamente come “ na famija de cafuni “. A parte queste
considerazioni per me doverose da sottolineare giacché sono la risultante e il
fardello che ancora mi porto dietro nell’intimo della mia anima di tante
umiliazioni a cui la mia famiglia è stata assoggettata nel coso della sua epopea
di ”povera gente“ e che hanno lasciato un segno indelebile nelle nostre vite di
emigranti, capaci comunque di sviluppare un elevato grado di sano orgoglio e di
estrema dignità, prima nei miei genitori e poi anche per quello che è stata ed è
tutt’ora la mia storia e la mia vita. Dopo questo piccolo sfogo, “scusate ma non
potevo fare a meno di esprimere questi pensieri ”e poi scrivere serve anche a
questo, a tirare fuori qualche peso da tempo sopito ma mai digerito . Ma veniamo
allo scopo principale di questo mio scritto che è quello di testimoniare qualche
aspetto di vita contadina della seconda metà del secolo scorso. Torno pertanto a
parlarvi della raccolta dei legumi che hanno rappresentato il perno centrale per
le passate generazioni e in fatto di alimentazione e pertanto importantissima ed
vitale. Verso la fine di Giugno le piante delle leguminose ( lenticchie,
piselli, fagioli, fave, ceci, lupini, cicerchia, ecc ) subivano la maturazione
dei baccelli e la disidratazione delle piante cariche degli stessi. Prima che le
piante subissero la completa essiccazione e il completo sbriciolamento al
contatto, quando la pianta si poteva ancora manipolare senza che subisse danni e
i baccelli erano parzialmente disseccati ed ancora chiusi, si procedeva
all’espianto totale dal terreno. La fase successiva poi era quella di staccare i
baccelli e farli seccare del tutto. E qui entra in ballo ” lu Saiu Panecottu “ !!
Noi avevamo un pezzo di terra “ allu Pinculu “ sulla via di Neviano, come ho
avuto modo di parlare in miei precedenti commenti alle opere, immancabilmente la
terra veniva utilizzata per piantare granaglie e leguminose che ci assicuravano
i pasti durante l’anno . La raccolta dei ceci, delle fave e dei fagioli
normalmente si faceva sul posto perché si aveva una buona resa nel rapporto
quantità di legumi e tempo di raccolta e poi perché le quantità erano esigue
rispetto per esempio ai piselli. La raccolta di questi ultimi poneva sempre il
solito problema di mondare le piante dai baccelli che, vista la mole delle
stesse, veniva sempre scartata in quanto ci si spezzava la schiena visto che
piante erano basse, intorno al mezzo metro dal terreno. Il loro raccolto e la
seguente battitura in loco veniva evitata perché questo presupponeva almeno la
struttura di un’aia sul terreno che non avevamo e col rischio che le piante
troppo secche lasciavano cadere per terra una parte di prodotto, pertanto la
soluzione migliore era quella di svellere le piante, legarle in fascine più
grosse che si poteva e trasportarle a casa con l’apporto dell’unico mezzo a
disposizione della mia famiglia, la bicicletta di mio padre munita di
portabagagli estensibile montato dietro la sella. Ed eccolo lì “ lu Saiu “ che
una volta caricato il mezzo trasportava il raccolto a casa pigiando sui pedali
in un continuo e precario equilibrio dovuto al peso trasportato, al suo notevole
ingombro e allo stato delle strade, ( quella di Neviano era completamente
sassosa), “ ‘nfricciata “ era il termine dialettale e si doveva camminare in una
delle gole lasciate dal passaggio dei traini che presentava il fondo abbastanza
omogeneo ma poco largo. Per la tipologia delle piante, anche se erano legate
strette con perizia, una volta fissate alla bicicletta la fascina tendeva sempre
a sfilacciarsi e parte dei rami toccavano il terreno. Questo faceva sì che
durante il tragitto qualche pianta o parte di essa veniva persa con conseguente
tracciatura del percorso. Quando mio padre arrivava nei pressi della discesa che
portava al nostro rione “ Longa “, per motivi di sicurezza, scendeva dalla bici
e intraprendeva la discesa a piedi attaccato al manubrio e ai freni . Mi sembra
di vederlo ancora adesso, col passo ciondolante, col volto fiero, segnato dalla
fatica e cotto dal sole con l’immancabile coppola intrisa di sudore e non di
rado un gambo di fiammifero, “ cu nu pospuru “ tenuto tra i denti che gli usciva
da un lato delle labbra, quasi sempre il sinistro (chissà perché poi il lato
sinistro) veniva giù attaccato con fatica al manubrio cercando di domare Il peso
della bicicletta che, carica, tendeva a scivolare repentinamente giù per
l’effetto della discesa . Dietro a quel suo sguardo fiero si leggeva anche
l’amarezza di faticare sempre senza sosta come una bestia da soma con l’unico
premio al traguardo di portare il sostentamento alla famiglia e senza vedere un
futuro né per se né per i suoi figli ( e questo io lo sapevo fin troppo bene )!
Un’altra piccola divagazione : a quell’epoca io che non mi perdevo mai un film
di epoca romana, ( quelli di – peplo e spada – per intenderci ), mi veniva di
paragonare mio padre a un auriga che invece di essere attaccato con le braccia
tese alle briglie di un cocchio romano spinto dai cavalli nell’intento di
frenare la loro irruenza lo vedevo attaccato al manubrio della bici nella stessa
identica posa. Arrivato a casa era mia incombenza tenere il manubrio della
bicicletta in equilibrio durante lo scarico della fascina “ te la sarciana te
pisieddri “ . Mi ricordo che ero vestito di una semplice canottiera,
pantaloncini corti e ……scalzo! Subito dopo, mentre lui si avviava in campagna
per in nuovo carico, mia madre con l’aiuto delle vicine di casa si adoperava per
mondare le piante dai baccelli destinati all’essiccazione “ sulla lambia te casa
“ ( sulla terrazza) e alla successiva “ battitura e cernatura “ dei baccelli
ormai completamente secchi e coi piselli duri come biglie. A distanza di tanti
anni mi sovviene di assaporare, ( ahimè ormai solo mentalmente ), l’odore tipico
delle piante dei piselli che emanavano un odore dolciastro e unico, tale da
impregnare l'aria intorno a noi, pullulante di un miscuglio di invisibili
molecole odorose, che stuzzicavano il naso e inviavano all’anima una sorta di
appagamento e di benessere.
Mah…!! Che dire o aggiungere di più………! Questi sono ricordi corredati da
considerazioni che spesso vengono a bussare alla mia mente, e io che ho
assaporato fino all’ultimo quelle sensazioni non posso fare a meno di dare loro
il “ benvenuto” e così a poco a poco mi lascio trasportare e maturare nella
mente l’idea che forse vale la pena parlarne anche se sono vicende
personalissime di vita vissuta che sono solo mie. Dopo aver maturato l’idea,
piano piano mi auto convinco che forse potrebbero essere condivise con quanti
abbiano in animo sensazioni e ricordi simili, con la capacità che esse hanno di
suscitare, coinvolgere e avviluppare l’anima con quei ricordi del “ tempo che fu
“. Per rafforzare questa mia teoria, la mia autoconvinzione mi porta fino al
punto di maturare l’idea non solo di esprimere tali sensazioni con uno scritto
come sto facendo adesso, ma anche col mezzo più concreto di rappresentarle sulla
tela, e così, prende forma l’impegno di cimentarmi col disegno e i pennelli in
qualcosa di più tangibile come questo dipinto che visivamente ha già di per se
la capacità di stimolare l’osservatore e di trascinarlo in un nugolo di pensieri
e considerazioni.
Mah…..!! Queste sono solo divagazioni della mia mente su cui amo cullarmi e in
fondo alle quali trovo sempre un sia pur debole sorriso che spunta sulle labbra
quasi a volere dare una specie di benevolo consenso a quelle cose ormai
astratte, così lontane nel tempo, eppure così vicine e vive……! Certo è che esse
mi aiutano a resettare la mente pregna di tante vicissitudini del vivere odierno
molte delle quali inevitabilmente negative e amare che non si sposano certo col
mio modo di pensare a cui sono stato educato di intendere la vita, ma che
fungono da balsamo all’anima affannata che cerca rifugio nel lido sicuro dei
tanti ricordi così pregni di benevoli visioni, appartenenti ormai a una vita
ormai passata ma che ha lasciato una scia di sapori, sentimenti e profumi
particolari che hanno ancora il potere di colmare le tante lacune del vivere
quotidiano!
Un saluto a tutti i Tugliesi e i miei amici in particolare, dal sottoscritto che
ancora anela di vivere in un mondo più giusto e più bello.
Concludo con un aforisma che recita : La bellezza dell’arte salverà il mondo….!
Lo spero ardentemente……!
Il pittore : Salvatore Malorgio
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Tuglie...per raccontar paese...
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