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Zappatori : eroi della civiltà contadina !

              Salvatore Malorgio – Zappatori salentini - 2021 - olio su tela - cm. 50 x 70

Carissimi amici e amiche, e in particolare amici conterranei, lettori su questo magnifico sito di cose che hanno il sapore di vicissitudini lontane , quasi perse nel tempo nella nostra società di gente del sud , in particolare del mio Salento che ancora pulsa nelle mie vene come una malattia incurabile e che io, Salvatore Malorgio, importato al nord ( da 51 anni ormai ) e in egual tempo umile pittore autodidatta non l’ho mai curata, anzi, me ne sono guardato bene dal farlo, e l’ho sempre alimentata con i ricordi che la lontananza stimola continuamente attraverso quel cordone ombelicale che per un oscuro sortilegio non si consuma e si insinua in quella parte della mente che mi tiene unito alla mia terra natia. Prima, costantemente nel mio animo, e poi , servendomi della mia arte pittorica , ogni tanto non so resistere all’impulso di dedicare qualche fatica pittorica a qualche ricordo di vita vissuta in tempi passati, che adesso hanno subìto la metamorfosi in “ tempi remoti ” se tenete conto che queste cose l’ho vissute in seno alla mia famiglia di onorati contadini almeno 60-65 anni fa. Vi prego , non meravigliatevi se ancora oggi ogni tanto ritorno a quei tempi, di quando ero ragazzo con argomenti ormai anacronistici in quanto ormai inesistenti se non nella memoria di chi come me li ha vissuti. Ho pensato parecchio prima di accingermi a lavorare su questo tema che tanto ha rappresentato per me in quanto a formazione di vita, colma di valori come la famiglia , il lavoro, l’educazione , la consapevolezza della creaturalità e di appartenenza a Dio, degli insegnamenti religiosi, del sacrificio, dell’obbedienza e rispetto verso i propri familiari e l’educazione che sono state il mio bagaglio culturale che mi hanno permesso di raccogliere tutto il coraggio di abbandonare la famiglia e andare al nord, all’avventura, confidando solo in quel bagaglio che è stata la mia eredità principale lasciatami dai miei genitori e dei miei nonni, e da un umile “pezzo di carta“ come si diceva a quei tempi, un diploma di scuola media superiore. Arrivai in Lombardia nel 1970 come uno dei tanti migranti di cui sono piene le cronache attuali, all’avventura, con due amici tugliesi, senza un contratto di lavoro e con 50000 lire in tasca per contribuire alle spese di un vecchio 1300 Fiat e alle prime spese di sostentamento in attesa di trovare lavoro che per fortuna trovai subito. Non sto qui a raccontare quello che mi è costato tutto ciò , è stata dura , ma alla fine c’è l’ho fatta e anche questa è ormai storia. Ho già dedicato un bel lavoro su questo argomento dei contadini di quell’epoca con l’opera : ( Contadini salentini negli anni cinquanta - 2013 - olio su tela - cm. 100 x 70 ) e l’ho già corredato da un ampio e per me bellissimo commento,dove ho rasentato note poetiche in omaggio a mio padre e mio nonno materno che troverete su questo sito nella mia rubrica . A distanza di 8 anni ho sentito il bisogno di onorarli ancora, ( prima che sia troppo tardi - per citare il titolo di un album musicale del mio conterraneo Renzo Arbore - ) e con loro, tutta la categoria dei contadini perché la loro fatica, la loro abnegazione al sacrificio per il lavoro duro mi scorre ancora nelle vene con i miei ricordi, indelebili , incancellabili e mai sopiti, che ancora mi suscitano intime emozioni. Loro se lo meritano e io a modo mio voglio ravvivarne il ricordo e onorarli per quella che è stata la loro vita, dura, piena di stenti e di scarse soddisfazioni.
Qualche cenno storico sul tema : Per assunto il mestiere di coltivare la terra è uno dei più antichi del mondo ed ha costituito il secondo stadio culturale della storia dell’umanità, cioè il passaggio da una cultura di cacciatori raccoglitori di frutti spontanei a quella di coltivatori allevatori. Mi piace ricordare con la parola “ contadino” tutti gli operatori dell’agricoltura, con una sottolineatura speciale per coloro che lo facevano a mezzadria o come semplici prestatori d’opera, manualmente, a forza di braccia. E questo per rendere giustizia ad un’attività raramente apprezzata, spesso dileggiata e percepita come una casta di inferiorità sociale, mentre è stata da sempre sostanziale per l’esistenza e sviluppo umano e vissuta eroicamente, talvolta al limite della sopravvivenza. Un mestiere che, nel rincorrersi delle attività da svolgere nell’arco dell’anno, diventava un concentrato di mestieri che richiedeva intelligenza, prontezza, abilità, forza fisica, pazienza. Tanta … ! . Al sud, le generazioni antecedenti alla mia, in massima parte erano di estrazione contadina. Nel Salento hanno contribuito, tramite lo spietramento, a rendere coltivabili i terreni e già da ragazzi erano addetti a questa faticosa incombenza. Lavoravano da buio a buio, sotto l’inclemenza di ogni clima, abitando in case per lo più fatiscenti. Eppure si andava avanti, ci si aiutava scambiandosi la manodopera per le faccende più importanti. Eppure a detta di mio nonno, durante il lavoro ( in special modo quello del raccolto ) si cantava in un clima gioioso, aperto a facezie, burle e tanta allegria, che faceva dimenticare la fatica e le ristrettezze di ogni giorno. Anche se spesso analfabeti questi nostri predecessori sono stati autentici maestri di vita. La figura dello zappatore era l’essenza della fatica vera. Il cafone, il contadino zappatore, dopo anni di lavoro, sicuramente si ritrovava con la schiena curva. Avevano tutti la schiena curva i nostri nonni, e ancor di più posso testimoniare che anche mio padre ce l’aveva , eccome se ce l’aveva! Al mio paese, quelli che ancora lo ricordano lo vedono con l’incedere ondeggiante, col baricentro sbilanciato in avanti, e quando la sera scendeva in piazza per contrattare qualche giorno di lavoro presso terzi, sovente soleva appoggiarsi con la schiena sui muri dei caseggiati antistanti la piazza. Quello dello zappatore, tra i tanti mestieri scomparsi era il più praticato e oggi pur tra le tante mostre e celebrazioni dei vecchi mestieri è raro persino trovarlo citato. Già la scomparsa degli antichi mestieri costituisce una perdita incolmabile perché rappresenta la cancellazione delle abilità e della creatività umana e pertanto di un aspetto della civiltà. Il mestiere del contadino, e nello specifico dello zappatore, è caduto nell’oblio generale, quasi a averlo voluto dimenticare , come se si fosse praticato una specie di esorcismo, tale da voler cancellare la categoria. Ciò facendo non si rende giustizia alle tantissime anime che col loro faticosissimo lavoro hanno contribuito in massima parte allo sviluppo della società del profondo sud. Nascevano poveri ed erano destinati a consumarsi con la zappa, ( “ l’arma “ , come la definiva mio padre) come compagna quotidiana per la loro sussistenza per intere generazioni senza mai vedere significative migliorie della loro misera esistenza e a 40 anni si era già vecchi e pieni di acciacchi. Ricordo una frase indelebile nella mia memoria pronunciata dalla vicina di casa, tale Giovannina che alla vista di mio padre che curvo rientrava dalla campagna, ebbe a dire alla Palmira , l’altra vicina di casa , che pure lo osservava . “e ci bboi, ca quiddru ete cristianu faticatu” ( e cosa vuoi, quello è una persona che si è ridotto così per il tanto lavoro) quasi a giustificare il portamento curvo e stanco. La loro vita era scandita dalle stagioni e dal tempo meteorologico, dal ciclo dell'aratura, ( non tutti avevano la possibilità di arare e la vanga dell’aratro, spesso era la zappa e il lavoro manuale ) o dalla semina e dal raccolto. Era un lavoro duro che iniziava al sorgere del sole e finiva al tramonto; sul posto di lavoro ci si recava a piedi, difficilmente si partiva da soli ma in gruppo, e il capoccia era quasi sempre il più anziano. Quando si lavorava a giornata, oltre alla paga giornaliera era consuetudine dare il vitto, ma non tutti i possidenti terrieri rispettavano questa regola. A proposito : La paga? Misera come la miseria e lo sfruttamento. Due lire ai primi del novecento! E , nel ’50 diventarono cinque. Riguardo alle attività, i contadini erano distinti per subclassi (coltivatori diretti, braccianti, mezzadri), oltre che per ruoli specializzati (zappatori, mietitori, potatori, vignaioli, trainieri -trasportatori ). Zappare nella vigna, col caldo afoso è stato il mestiere più duro dei contadini giù al Sud. Era fatica vera, quella fisica, sfiancante , condita solo dal sudore, il tutto reso ancora più desolante dal fatto che i poveretti non disponevano del vitto adeguato e abbondante , la fame era una costante e non ci si spiega come potevano affrontare simili fatiche in quelle condizioni, tutti magri , magrissimi e dall’aspetto di uomini consumati dagli stenti. In sintesi, il lavoro era pesante, l’alimentazione scarna e magra. La vita breve! Anche l’aspetto esteriore dell’abbigliamento lasciava molto a desiderare , andavano con i pantaloni consunti e “ repazzati “ cioè piene di toppe di foggia diversa per dimensioni e dai colori difficilmente amalgamati alla tinta di quell’indumento . Una delle incombenze di mia madre era quella di “ repazzare “ e spesso si lamentava perché mio padre continuava a propinarglieli di sovente, sempre gli stessi per l’aggiustatura, e così indipendentemente dai ritagli di stoffa diversi che poi erano residui di vestiti dismessi per l’avvenuta indecenza ad essere indossati ulteriormente, con la santa pazienza continuava a cucire toppe su altre toppe, e così i pantaloni erano ricostruiti col frontale sulle gambe come una mappa geografica. La capacità di resistere alla fatica era solo dei contadini zappatori. Ogni sera questi lavoratori della terra si radunavano in piazza l'ingaggio di manodopera , “ cu se buscane qualche sciurnata” ( per guadagnare qualcosa con qualche giorno di lavoro retribuito ). I padroni sceglievano i più dotati fisicamente per il lavoro dello zappatore. Per una misera paga giornaliera senza diritti di sorta, senza dignità, perché sfruttati dallo spuntar del sole fino al tramonto. Erano tempi duri per sfamare la famiglia. Non c'era alternativa. Un altro lavoro duro era la zappatura in profondità “ la scatina “, bisognava zappare profondamente il terreno con una zappa del peso di circa 5 chili. Questo lavoro era necessario per piantare la vigna ed estirpare la gramigna, quell'erbaccia che succhiava humus dalle piante coltivate. Di questa specifica incombenza vi rimando al bellissimo testo che ho citato poc’anzi di otto anni fa. Mi piace a questo punto mettere in evidenza la dignità di quanti, qualificati contadini zappatori del Sud, che con il proprio sudore e la dura fatica hanno fatto studiare i figli per un futuro migliore. Io ne sono un esempio. Mio padre, con convinzione, ha sempre spinto per farmi studiare perché a suo dire non voleva assolutamente che io mi “spaccassi la schiena” come lui : ( tie studia e nu te preoccupare pè mie, ca jeu pozzu puru nu mangiare, basta ca vai alla scola ) ( tu studia, e non ti preoccupare per me perché io posso anche non mangiare, basta che vai a scuola). Quel termine “ spaccarsi la schiena “ la diceva lunga su quello che significava quell’attività. In cuor suo sicuramente anelava ad essere riscattato da quella condizione disumana attraverso la mia istruzione . Dello stesso parere era il buon’anima di mio nonno Bonaventura , ( lu nonnu Vantura ).
La loro era sempre stata una “civiltà delle mani” che generava una cultura basata su antichi mestieri tramandati di padre in figlio e connotata dalla ruralità e da gerarchie sociali che vedevano ben distinti pochi e potenti latifondisti di ex casate nobiliari, della classe intermedia ( quella degli artigiani ) e loro, i contadini zappatori che appartenevano alla massa popolare degli sfruttati. Prima dell’alba gli zappatori erano già in piedi. Mettevano in spalla la bisaccia, ( quella di mio padre era di tela a trama fitta a sfondo chiaro alternata da strisce orizzontali di colore blu marino ), poi, sopra la spalla, la zappa e via verso «l’antu». (un campo infestato d'erbaccia) da zappare. L’antu era il luogo dove i contadini si recavano a zappare e insieme, quella formazione di zappatori ( almeno quattro ) in linea obliqua che essi formavano zappando in fila l’uno accanto all’altro. Molti disponevano di “ un’anta “ di terra, una partita, ( un piccolo podere ) dove coltivavano in massima parte granaglie e legumi per il sostentamento delle rispettive famiglie. La nostra era adiacente sulla via di Neviano, ma mio padre , grande lavoratore, non lesinava di impegnarsi anche con poderi a mezzadria, lavorava da notte a sera e posso citare per esperienza personale alcuni di questi poderi a mezzadria come : “ Camascia “ , ( Camastra ) , dov’era un vigneto piantumato personalmente da mio padre. Poi da citare “ lu Ncaruggiu “ , un po’ oltre la zona di Camastra , un po’ prima di arrivare a incrociare la strada Sannicola – Neviano. Poi ancora “ Rotogallo” dopo Sansimone e prima delle prime case di Sannicola dove ha coltivato una porzione di vigneto quasi totalmente di uva moscato, e poi per finire, dopo la morte del nonno Bonaventura un altro vigneto ereditato, quello in contrada “ Jala “ , un po’ lontano da casa nostra , adiacente la strada Alezio-Parabita. Per la cronaca , in tutti questi poderi ho messo anch’io una parte di lavoro e questo è stato il migliore insegnamento, anche se faticoso, ed è stato il miglior viatico per affrontare la vita che mi abbiano trasmesso i miei genitori. C’era tanta miseria e l’economia la scandivano proprio loro, gli zappatori, quelli semplici e i mastri zappatori, quelli che comandavano “ l’antu “ ed erano affidabili per resistenza alla fatica. I terreni al Sud, quelli da adibire a varie coltivazioni erano per la totalità terreni da “ scurciare “. Tra gli addetti, “scurciare la terra” voleva dire eliminare le erbacce e le radici di quelle infestanti. Terra rossa, per la sua particolare composizione, nella quale si trovano soprattutto idrossidi di ferro ed alluminio, minerali argillosi, componenti di quarzo e quant’altro. I primi zappatori la rimuovevano il giusto per consegnarla alla forte fibra delle seconde file , quelli più esperti e resistenti che la rimuovevano più a fondo per rivoltarla e ossigenarla, ( 50 – 60 centimetri ). Che vita era ? Credo di essere stato abbastanza esauriente, il resto, casomai ce ne fosse bisogno, lo lascio alla vostra immaginazione e alle vostre considerazioni. Aggiungo solo che questo scritto e quest’opera è il frutto della mia inclinazione all’arte pittorica e al desiderio di raccontare e testimoniare qualcosa del nostro passato di povera gente e di quanti col loro lavoro manuale e la zappa come compagna, hanno saputo costruire con il duro lavoro e la loro abnegazione la società del benessere e anche, e soprattutto, per onorare tutte quelle persone che, insieme a mio padre e mio nonno, erano artisti (come un po’ lo sono io) ma nell’arte di zappare, hanno dedicato e speso la loro intera esistenza di fatica e sudore a quel duro mestiere! .


Commento all’opera :
Come in tutti i miei lavori , anche in questa rappresentazione scenica non vi è nulla che rimandi a una interpretazione astratta sul tema. E’ tutto palesemente chiaro già dal primo impatto all’osservatore. Un vigneto e quattro contadini zappatori che zappano il linea. I personaggi sono di fantasia ma per quanto possa ricordare ho voluto ispirarmi a persone reali che ho conosciuto personalmente nei miei primi vent’anni trascorsi a Tuglie. Il primo a sinistra assomiglia grosso modo a mio padre Cesario Malorgio, ( col nome d’arte - lu Saiu Panecottu ). Si nota il volto segnato dallo sforzo e dall’impegno di aggredire la terra e il basco che portava sempre, anche la Domenica nei mesi invernali. Quella alla sua sinistra ha un po’ le fattezze di Luigi Marzano,( col soprannome associato - lu Pici Pativitu ), quello al centro si assomiglia molto, per corporatura e fattezze facciali a Salvatore Pisanello ( con soprannome associato – lu Totu Monicizzu ), tutti e tre abitavano sul mio quartiere Longa. Il quarto zappatore, la faccia tondeggiante e il fazzoletto legato in testa mi ricorda Pietro Guido, ( con associato il soprannome – lu Pietru Musaca - ). Da notare che tutti portano allacciati alle gambe gli stivali di iuta grezza intessuta molto fitta, la stessa che si usava per drenare il vino dai fondi delle botti, ed erano un riparo seppure fittizio per riparare gli arti inferiori e i pantaloni dalla terra umida durante l’operazione di “scatina “ ( zappatura profonda ). L’ultimo personaggio in fondo, è un anziano nell’atto di asciugarsi il sudore dalla fronte con un fazzoletto e vuole essere il padrone del vigneto che munito di zappetta col manico lungo , per ovvie ragioni di tenuta di schiena, cerca di rendersi utile togliendo dai bordi del campo qualche erbaccia oltre che a controllare i lavoranti. Per terra, vicino a una costruzione di sassi a secco, da intendersi come un deposito per attrezzi, vi è appoggiato “ nu mbile “ ( un contenitore di argilla pieno di acqua ) che serviva a dissetare i faticanti che sudando copiosamente si disidratavano molto di frequente. Sullo sfondo della scena si nota “ nu furneddru “ una costruzione a secco tronco conica tipica del Salento con annessa una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana e un muretto, sempre a secco, che determina i confini del fondo. Per la macchia verde in primo piano molto fitta e appariscente, vi ho dipinto un canneto, diciamo che ho voluto rompere gli usuali schemi degli alberi di ulivo che comunque si notano sullo sfondo più in profondità, con varie cromature di verde. Da notare la piantumazione giovane di ceppi di vigna bassa, tipica salentina di quei tempi, in massima parte di Negro Amaro con le gemme che stanno per aprirsi e il terreno antistante ancora da zappare cosparso di erba spontanea in piena fioritura.

Spero che il tutto sia stato di vostro gradimento.


       In fede : Salvatore Malorgio , umile pittore, aspirante scrittore e Tugliese D.O.C.



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